“Io ho 90 anni e mi chiamo Alberto Sed. Sono un ex prigioniero di Auschwitz e tifoso romanista da quando sono nato. Sono nato col pallone, ero fortissimo: mi chiamavano il piccolo Amadei”.
Inizia così la chiacchierata di Alberto Sed con la televisione ufficiale della As Roma, andata in onda lo scorso 25 aprile in occasione della festa per la Liberazione. Ci ha lasciati pochi giorni fa, il 3 novembre, a 91 anni, dopo una vita segnata dalla detenzione ad Auschwitz, ma ciò nonostante ricca di gioie e soddisfazioni arrivategli soprattutto grazie a figli, nipoti e pronipoti. In questi anni ha girato scuole, ha risposto a domande, ha visto riaffacciarsi i simboli nazisti, anche negli stadi. Ha avuto modo di conoscere Francesco Totti a cui ha detto: “Se non ci fossero state le leggi razziali, sarei stato più forte di te”.
Quando le leggi razziali del 1938 gli hanno impedito di proseguire gli studi, “ho detto beh non me ne importa niente, tanto io me ne vado a giocare a pallone. E invece proprio il prete con le lacrime agli occhi mi ha detto «Alberto non puoi più giocare perché adesso i fascisti stanno facendo i tremendi e se vedono che un ebreo sta giocando…». E da lì iniziai a capire che essere ebreo era una sfortuna”.
Nel 1943 è sfuggito alla retata effettuata nel ghetto di Roma: “Il 16 ottobre hanno cominciato a fare la retata. Solo che noi vivevamo alle spalle del ghetto e sentivamo «No! No! Non si prendono gli uomini, si stanno prendendo tutto! Pure i bambini e i ragazzini sopra alle macchine!» Allora noi da lì siamo usciti, abbiamo trovato via libera. Mio nonno stava a Porta Pia, noi non sapevamo dove andare a siamo andati da lui”.
È stato catturato meno di sei mesi dopo, il 21 marzo 1944, insieme alla madre Enrica e alle sorelle Angelica, Fatina ed Emma. “Prima ci hanno portato dove andavamo a giocare a pallone, volevano sapere dove stavano gli otto fratelli di mia madre. E così ho detto «E che ne so?» e hanno iniziato a darmi calci e pugni. Da lì ci hanno portati a Fossili: c’era un concentramento di tante persone da portare in Germania. Ci hanno caricati sui carri bestiame. Mi ricordo che mia sorella piccoletta l’ultima volta che l’ho presa in braccio aveva nove anni, stava sopra le mie spalle perché voleva respirare un po’ di più dal buco del vagone”.
Pochi giorni dopo essere arrivata a Fossili, la famiglia è giunta ad Auschwitz, dove Alberto racconta di essere diventato un numero. Per la precisione, A-5491. La sorella Emma e la madre, giudicate inabili al lavoro nella selezione condotta all’arrivo, sono finite subito nella camera a gas: “Un giorno ho visto due francesi e gli ho chiesto cosa succedeva. «Ma sei venuto solo?», mi hanno chiesto. «No, con mia madre e le mie sorelle». «Guarda un po’ lassù, che vedi?». «Che vedo? Il fuoco, il fumo…». «Lo sai a che serve?». «Eh certo, fa freddo, scaldano le baracche». «Ieri le hanno scaldate con tua madre e tua sorella»”.
Ad Auschwitz lo mandarono a lavorare ai trasporti: doveva prendere le persone e indirizzarle all’interno del campo. Racconta che se arrivavano una madre o un padre giovane, con un neonato in braccio, andavano a morire entrambi e per questo provava a levargli il bambino dalle braccia. “Davanti a me c’erano due tedeschi e uno mi dice «Tiralo in aria». E puntandomi la pistola sotto la testa mi ha chiesto se volevo farlo io o se lo lasciavo fare a quello che veniva dopo. Ha dovuto prendere il ragazzino e tirarlo in aria… e hanno fatto il tiro a segno. Fino a quando non hanno camminato i miei figli e i miei nipoti non li ho mai presi in braccio”.
Per anni siamo stati tutti zitti: quello che avevamo visto era impossibile.
Anche sua sorella Angelica non è più tornata da lì: un mese prima della fine della guerra, è stata sbranata dai cani per il divertimento delle SS. Solo Fatina è tornata, segnata da ferite profonde: ha assistito alla fine di Angelica ed è stata sottoposta agli esperimenti del dottor Mengele. Alberto è sopravvissuto alla fame, alle torture, all’inverno, alle marce della morte. Ha partecipato per un pezzo di pane a incontri di pugilato fra prigionieri organizzati la domenica per un pubblico di SS con le loro donne. “Potete immaginare che infornavano le persone, che le ammazzavano tutte, e non si sapeva niente. Allora per anni siamo stati tutti zitti: quello che avevamo visto era impossibile. Sei milioni di ebrei io li ho visti morire dappertutto. Un ragazzino che a 15 anni va all’inferno, che ti puoi inventare? L’hai solo visto e provato”.
Dopo essere scampato a un bombardamento, Alberto Sed è stato liberato a Dora nell’aprile 1945. “Al campo di Dora ci hanno detto che dovevamo dormire fuori, di farci un pagliericcio. Gli americani sono venuti a bombardare e siamo finiti sotto l’ala di un apparecchio dove c’erano già sette, otto persone. E così ci siamo salvati solo noi che stavamo là sotto. Ci hanno liberati gli americani l’11 aprile”. Al suo ritorno a Roma ha incontrato Renata che racconta di come gli ha fatto la corte finché un giorno gli ha detto: “Devi essere mia madre, mia sorella, mia moglie. Ma prima di volere bene a te ho voluto bene al pallone quindi se mi mandi a vedere la Roma io mi fidanzo, sennò non c’è niente da fare”.
Storie diverse, ma uguali
Nel mondo del calcio Alberto Sed non è stato l’unico a essere deportato in un campo di concentramento. Famosa è la storia di Erno Erbstein, ebreo ungherese che prima da allenatore e poi da direttore tecnico fu il principale artefice del “Grande Torino”. Le novità che portò cambiarono per sempre il calcio italiano influenzando anche Arrigo Sacchi e Pep Guardiola. Dopo solo pochi mesi da allenatore, Erbstein portò il Torino in testa alla classifica, ma poco prima delle festività natalizie del 1938, dopo una vittoria a Milano contro l’Inter, venne informato che in quanto ebreo avrebbe dovuto lasciare il suo lavoro e l’Italia.
Si trasferì con la famiglia in Ungheria, ma nel marzo del 1944, dopo l’invasione da parte della Germania nazista, la comunità ebraica di Budapest venne isolata nel ghetto e gli uomini furono inizialmente internati nei campi di lavoro. Tra loro Erbstein, che però riuscì ad evitare la deportazione e successivamente partecipò a una fuga con altri prigionieri. Quando il 4 maggio del 1949 l’aereo del “Grande Torino” si schiantò a Superga, Erbstein era a bordo: morì pochi anni dopo essere riuscito a sfuggire alle persecuzioni antisemite fra Italia, Germania e Ungheria.
“Ognuno ha una religione, ma tutti abbiamo Dio e a tutti piace giocare a pallone. Quindi siamo tutti uguali”.
La stessa sorte capitò ad Arpad Weisz, allenatore del Bologna più forte di sempre, che in quanto ebreo fu vittima delle leggi razziali in Italia. Rifugiatosi nei Paesi Bassi, con l’occupazione tedesca fu arrestato e deportato prima nel Westerbork e poi ad Auschwitz, dove a soli 47 anni trovò la morte in una camera a gas il 31 gennaio 1944.
Anche Ferdinando Valletti, mediano del Milan, fu deportato a Mauthausen e a Gusen II. Arrestato dai collaborazionisti repubblichini e consegnato alle SS tedesche per aver aderito allo sciopero del 1° marzo 1944 all’Alfa Romeo, fu impiegato a Gusen II nella “squadra cemento” che aveva il compito di scavare gallerie che dovevano servire per occultare alcune fabbriche belliche tedesche. A differenza degli altri, però, Valletti si salvò proprio grazie alla sua carriera nel Milan: venne chiamato da un kapò a sostituire un giocatore di calcio nella squadra delle SS e per questo gli venne concesso di lasciare il lavoro alle gallerie e di lavorare come sguattero nelle cucine. Il 5 maggio 1945 venne liberato dalle truppe alleate.
Storie diverse, ma con dei punti in comune, che forse dimostrano che ha ragione Alberto Sed quando dice che “Ognuno ha una religione, ma tutti abbiamo Dio e a tutti piace giocare a pallone. Quindi siamo tutti uguali”.