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Per allenare quello che conta è la personalità, non il genere


Dovevi essere una bambina coraggiosa se volevi giocare a calcio in Italia. L’intero paese amava il calcio. Tutta la mia famiglia adorava il calcio. Era nel nostro sangue. Ma era ancora un gioco da uomini”. Ce l’ha fatta, però, Carolina Morace a giocare a calcio, arrivando a essere considerata una delle quattro giocatrici più importanti del secolo.

La sua storia incredibile l’ha raccontata su The Players Tribune, una rivista americana che racconta le vite dei grandi sportivi, da LeBron James a Lorenzo Insigne. Scrive che il papà era nell’esercito italiano e viveva con la famiglia in un complesso militare a Venezia, dotato di numerosi campi sportivi. Ogni singolo giorno ha seguito per anni il fratello maggiore, Davide, per riuscire a giocare con lui e gli amici. Proprio queste ore passate giocando spalla a spalla con i ragazzi più grandi di lei l’hanno aiutata a sviluppare le sue grandi capacità tecniche, poiché fisicamente non poteva competere con loro: per riuscire a togliergli la palla, doveva essere più veloce.

Nel giro di pochi anni, quando ne aveva 13, è arrivata nella Serie B della Lega di calcio femminile. Solo un anno dopo, nel 1978, la sua vita è cambiata: “Un giorno sono tornato a casa da scuola e mio padre mi stava aspettando in cucina. «Carolina, voglio che ti siedi». «Oh, mamma mia, cosa è successo ora?». Di solito era mia madre quella che mi parlava di cose serie. Ero preoccupata di ciò che mio padre stava per dire. «Il presidente della tua squadra di calcio mi ha chiamato», ha detto. «Sei stata convocata in nazionale». Potevo a malapena credergli. Ero stordita. Avevo solo 14 anni, come potevo essere chiamata a giocare per l’Italia? Sapevo che avrei potuto segnare bei gol in Serie B, ma farlo contro alcuni dei migliori giocatori del mondo sarebbe stato un compito diverso”.

È deprimente pensare che in Italia ancora si discute se una ragazza possa o meno giocare a calcio.

Oggi, che sono passati più di quarant’anni, ci sono 26 milioni di donne che giocano a calcio in 180 paesi e sono aumentate del 210 per cento in America e del 160 per cento in Germania rispetto a dieci anni fa. In Italia, però, le giocatrici incontrano ancora diversi ostacoli, rispetto a quanto accade nel resto del mondo.

Ho vissuto in Canada, in Australia, nei Caraibi sempre per il calcio, e la cosa che un po’ mi amareggia è che un mondo diverso, dove non gliene frega niente a nessuno se una ragazza gioca a calcio o a pallavolo e se un ragazzo spinge una carrozzina. È deprimente pensare che in Italia, invece, ancora si discute se una ragazza possa o meno giocare a calcio, se lo spettacolo è uguale a quello che offre il calcio maschile”, afferma Carolina Morace, oggi diventata allenatrice del Milan femminile.

Proprio di questo è stata invitata a parlare a Roma da “Grande come una città”, in uno degli incontri  organizzati nell’ambito del Festival “Le ragazze sono in città”. Altri eventi di questo festival incentrato sul tema del genere hanno visto la partecipazione, tra le altre, di Pinar Selek, Lea Melandri, Helena Janeczek e Rosella Postorino. Grande come una città è un’iniziativa di un gruppo di cittadini romani (oggi quasi 500 divisi in una ventina di gruppi di lavoro) che, su spinta di Christian Raimo, si sono attivati e mobilitati per realizzare nel Terzo Municipio della capitale una serie di proposte e progetti culturali di varia natura.

Ognuno di noi trova nella vita un modo di manifestare sé stessi. C’è chi lo trova nell’arte, io l’ho trovato nel calcio.

Carolina, come prima cosa, invita tutti a interrogarsi su una questione. Come è possibile che dopo la partita tra il Milan femminile, neopromossa, e la Juventus femminile, da anni Campione d’Italia, finita 3 a 0 per le padrone di casa, sulla Gazzetta dello Sport non sia uscito neanche un trafiletto? Ma soprattutto, come è possibile che la prima pagina fosse interamente dedicata a Paola Egonu, la giocatrice di pallavolo diciannovenne, che il giorno prima aveva fatto coming out dicendo di essere fidanzata con una ragazza. Davvero si può dire che questa società sta cambiando? “Mi sembra che la gente sta cambiando, ma a livello politico, di informazione, siamo ancora molto indietro”, si risponde.

Come si può, allora, parlare di calcio femminile in modo da liberarlo anche dal confronto con quello maschile? A chiederlo Daniele Manusia, giornalista sportivo e fondatore della rivista L’Ultimo Uomo, invitato a dialogare con lei. “Intanto il fatto che le squadre professionistiche si siano avvicinate al calcio femminile, sponsorizzandole sui social, e che Sky abbia iniziato a trasmettere partite del campionato femminile, sta aumentando l’attenzione. Il percorso è partito, ma non possiamo pensare di vincere subito i Mondiali o di parlarne solo in seguito a una vittoria. Ci deve essere uno sforzo comune tra la Federazione e i mass media per sponsorizzare le partite, far conoscere le ragazze”.

Nel corso della conversazione, Carolina ripercorre anche il suo percorso. “Mi è sempre piaciuto segnare. La sensazione era diversa da qualsiasi altra cosa. Non importa quanto sei abile, veloce o giovane, se avessi segnato, la gente mi avrebbe guardato”. Ha avuto da subito le idee chiare e ha iniziato a giocare molto giovane, smettendo intorno ai trent’anni. È allora che ha deciso di iscriversi a giurisprudenza ed è diventata avvocato, ma ha dovuto iniziare un nuovo percorso in ritardo di dieci anni rispetto ai suoi coetanei.

Un grande problema del calcio femminile, infatti, è quello economico. Gli stipendi sono bassi e spesso non ci sono occasioni di lavoro una volta che si finisce di giocare. “Al Milan ci alleniamo al mattino, così che le ragazze hanno il pomeriggio libero”, racconta Carolina. “È vero che non c’è nessuna tutela, ma secondo me siamo sulla strada giusta perché siamo spinti dall’Europa. Non puoi pensare, infatti, di essere competitivo a livello europeo e mettere un tetto salariale, perché questo vuol dire che le migliori giocatrici del mondo in Italia non verrebbero mai perché sarebbero sottopagate. Se poi non pensiamo di dare lavoro alle ex giocatrici come allenatrici, commentatrici, fisioterapiste, come avviene per gli uomini, è chiaro che per le famiglie è difficile spingere una bambina a giocare a pallone”.

“Per allenare, infatti, quello che conta è la personalità, non il genere”.