È diventata famosa per le sue straordinarie ed entusiasmanti routine acrobatiche. Ha commosso rivelando i suoi problemi di salute – dalla colite ulcerosa ai disturbi alimentari -, di immagine e autostima, emblema delle sfide che moltissime giovani sportive – ginnaste e non solo – devono affrontare ogni giorno. Ora, insieme al giocatore di football Taylor Rapp, all’associazione Athletes for Impacts e a diverse organizzazioni no-profit, Katelyn Ohashi sfida il mondo ad affrontare la Covid19 uniti e ad opporsi all’ondata di razzismo contro gli asiatici (e non solo) che è seguita al diffondersi della pandemia. Lo strumento è la “Global Call for Racial Solidarity Under Covid-19 Pandemic”, una campagna di sensibilizzazione digitale.
“Essendo io stessa un’asioamericana (il padre della ginnasta è giapponese, ndr) e volendo allo stesso tempo combattere per l’unità, io credo che sia veramente importante unirmi a questa causa. Soprattutto perché vedo che in questo periodo molte persone sono confuse e che gli episodi di violenza contro gli asioamericani sono aumentati in maniera esponenziale. Credo che quello che stia succedendo non sia niente di nuovo e che si debba unire nel Global Solidarity Act”, spiega Ohashi.
Proprio come testimoniato da Ohashi, dall’inizio della pandemia, infatti, soprattutto negli Stati Uniti ma non solo, si sono moltiplicati gli episodi di razzismo contro le persone asiatiche o di origini asiatiche. “C’erano tre piccoli alimentari, due di proprietà di americani e uno, in mezzo, di proprietà di un asioamericano, e solo questo è stato vandalizzato”, racconta Ohashi a The Undefeated.
Simili episodi di razzismo sono avvenuti anche in Europa, come riporta una lettera al British Medical Journal: “Jonathan Mok, uno studente singaporiano, è stato attaccato in Oxford Street a Londra. Un cliente ha sputato addosso al proprietario di un takeaway cinese. Un espositore dell’Affordable Art Fair ha annullato l’invito a un artista vietnamita con la giustificazione che la sua presenza avrebbe ‘inibito l’accesso del pubblico allo spazio espositivo’. Un’infermiera del SSN, Reizel Quaichon, è stata aggredita fisicamente e verbalmente mentre si recava a un turno di notte a Brighton”, racconta Melanie Coates, medico di medicina d’urgenza.
“Nonostante ciò”, prosegue Coates, “il governo e i media hanno fatto poco per placare le paure e prevenire la diffusione e l’escalation dei pregiudizi. In questo torrente di paura e ansia, non possiamo permetterci di isolare ancora di più le persone attraverso lo stigma e la xenofobia; ognuno di noi ha la responsabilità di sostenersi a vicenda e lottare per difendere una società migliore. Quelli con la voce più forte – il governo e i media – devono parlare apertamente per condannare queste azioni. Hanno il dovere di educare il pubblico, proteggere le persone vulnerabili e ritenere le persone responsabili del pregiudizio e della discriminazione”.
Un virus non ha nazionalità o razza.
A dire il vero, spesso proprio media e politici hanno alimentato il pregiudizio definendo ripetutamente il Sars-Cov2 il “virus cinese” o il “virus di Wuhan”. “È davvero importante che durante questo periodo cerchiamo di evitare di chiamarlo virus cinese, perché è estremamente divisivo”, ha spiegato Ohashi nella sua intervista a The Undefeated. “Un virus non ha nazionalità o razza”, ha sottolineato Rapp.
Questo tipo di esternazioni, le narrazioni xenofobe e gli atti di vandalismo e violenza contro gli asiatici devono essere denunciate e contrastate in maniera sistematica. “Rimanendo in silenzio, lasciamo che narrazioni xenofobe – in particolare sentimenti anti asiatici – e attacchi razzisti danneggino la nostra società, con ripercussioni che probabilmente continueranno oltre la pandemia”, conclude la lettera sul Bmj.
Rimanere in silenzio è proprio quello che Ohashi e Rapp non intendono fare grazie alla loro campagna digitale, nata non solo per difendere gli asioamericani ma tutte le minoranze vittime di episodi di razzismo, che in questi tempi di paura, sfiducia verso il prossimo e crisi trovano terreno fertile. La campagna, infatti, vuole “usare l’attuale crisi causata dalla pandemia per affrontare in maniera sistemica e basata sulla comunità per mettere fine alla violenza xenofoba, contro i neri, sessista, omofoba e transfobica”.
Ohashi, Rappe e Atheltes for impact non sono i soli sportivi che si sono mobilitati in questo modo. Anche Jeremy Lin – ex cestista dell’Nba oggi nei Beijing Ducks – dopo aver vissuto e assistito in prima persona a episodi di razzismo ha dato vita alla campagna Be the Light che oggi ha raccolto oltre un milione di dollari, come racconta alla trasmissione radio Only a Game della Wbur e in un sentito articolo su The Players’ Tribune.
Proprio come la campagna Global Call, anche questa ha come scopo ultimo quello di aumentare il senso di comunità e solidarietà, la consapevolezza che questa sia una situazione da affrontare insieme, uniti. “Covid-19 non dovrebbe riguardare l’Est contro l’Ovest, la politica, la razza o qualsiasi cosa diversa dall’aiutare quante più persone possiamo contribuire a far sopravvivere”, scrive Lin.
“Nessuno sa quanto sarà devastante l’impatto di questa crisi, ma le proiezioni non sono buone. La ripresa durerà molto a lungo. Ma nel processo, ci saranno così tante opportunità di scegliere la luce. Non deve essere niente di appariscente o eroico. Scegliere la luce potrebbe semplicemente voler dire farsi vivi con un amico che sta soffrendo. Mostrare tutta la nostra gratitudine al fattorino che ci porta un pacco o difendere qualcuno che è vittima di bullismo. Condividere positività o supportare la tua libreria o ristorante locale preferito in questo momento difficile. Potrebbe anche essere solo rispettare il lockdown o evitare di pubblicare un commento negativo online”, prosegue Lin.
“Alla fine di tutto ciò, daremo una lunga occhiata allo specchio e non saremo in grado di mentire a noi stessi su come abbiamo agito. Credo che saremo orgogliosi di quello che vedremo. Ogni atto di bontà è importante. Ogni scelta positiva conta”.