Ventotto medaglie olimpiche, 23 ori che gli hanno garantito il primato di olimpionico più vincente, 39 record del mondo, centinaia di vasche e di avversari lasciati alle spalle durante 17 incredibili anni di carriera. Se fosse una nazione sarebbe al 35° posto nella storia del medagliere a cinque cerchi. Sarebbe davanti a nazioni come Argentina, Giamaica e Iran. Tutto questo appena “sole” quattro Olimpiadi. Lui è Michael Phelps, e nei giorni scorsi è tornato a far parlare di sé durante il “Bending Towards Justice: A Summit for Mental Health Equity“, tenutosi il 18 gennaio scorso al Kennedy Center di Chicago.
“Diventare un campione è la parte più facile, servono duro lavoro e dedizione. La cosa più difficile è non arrendersi mai”, ha raccontato il nuotatore statunitense, intervistato da David Axelrod, commentatore della CNN. Nell’intervista, infatti, Phelps ha ripercorso la sua carriera, soprattutto i molti momenti difficili da superare e le avversità che dall’esterno, dove ci si accorge per lo più del successo e dei grandi risultati, non è scontato immaginare. Il campione invece non le può dimenticare. Ricorda chiaramente, per esempio, il momento in cui il suo allenatore ha comunicato ai genitori che sarebbe potuto diventare un olimpionico e la delusione successiva quando, alle sue prime Olimpiadi, quelle di Sidney nel 2000, arrivò quarto in una gara per meno di mezzo secondo, tornando a casa senza medaglia. Al tempo furono la forza di volontà e la fame di vittoria a permettergli di non arrendersi e di raggiungere i suoi obiettivi, come quando a 15 anni batté il suo primo record mondiale.
Quella fame di successo aveva però un prezzo, rivela: “Dopo ogni Olimpiade cadevo in depressione. La prima volta è successo nel 2004”. Era appena terminata l’Olimpiade di Atene e Michael Phelps aveva chiuso l’esperienza conquistando sei ori e due bronzi e sfiorando il record del tedesco Mark Spitz, poi battuto qualche anno più tardi. Per lui, però, non era abbastanza. Non era riuscito a ottenere gli otto ori che si era prefissato. “Ero sempre affamato di vittorie, ne volevo sempre di più. Volevo spingermi fino al mio limite, vedere dove potevo arrivare”.
Proprio nel 2004 Michael Phelps venne accusato di guidare in stato d’ebbrezza e nell’autunno 2008 – poche settimane dopo aver vinto un record di otto medaglie d’oro alle Olimpiadi di Pechino – uscì una foto che lo mostrava mentre fumava cannabis da un bong. “La droga era un modo per scappare da qualsiasi cosa volessi scappare. Era come se fossi solo a prendermi cura di me stesso, praticamente ogni giorno, per cercare di risolvere tutte quelle cose da cui stavo scappando”, ha spiegato l’atleta.
Phelps ha poi raccontato che il momento più difficile per lui è stato dopo i Giochi Olimpici di Londra 2012 (dove portò a casa quattro ori e due argenti), quando pensò seriamente di suicidarsi. “Passavo tre giorni su cinque a letto, senza mangiare e dormire. Non volevo più gareggiare, non volevo più vivere”. Il suicidio era diventato quasi un chiodo fisso.
In seguito a un ulteriore arresto per guida in stato d’ebbrezza nel 2014, Phelps ha iniziato una terapia. “Il mio primo giorno di trattamento ricordo che tremavo perché ero nervoso per il cambiamento che stavo per affrontare. Avevo bisogno di capire cosa mi stesse succedendo. Ricordo che un’infermiera venne a svegliarmi alle 6 del mattino e mi chiese di dirle cosa provavo mentre guardavo il muro. Le risposi, arrabbiato, che ero abbastanza contento, ma non felice perché non ero una persona mattiniera”, ricorda ridendo.
“Tante volte mi sono chiesto perché non ne avessi parlato prima, ma probabilmente non ero pronto. Ero molto bravo a dividere in compartimenti le cose e a non parlare dei miei problemi, certe cose non ho mai voluto vederle. Adesso ho capito che a volte sentirsi bene non significa stare bene”. Phelps si augura che parlandone pubblicamente possa spingere le persone con disagi psichici ad aprirsi e chiedere aiuto. “Uno dei motivi principali per cui i tassi di suicidio sono in aumento è che le persone hanno paura a parlare del loro disagio. L’unico modo per far sì che le cose cambino è che le persone chiedano aiuto“.
Per condividere il suo percorso di guarigione con gli altri, inoltre, la sua Michael Phelps Foundation ha iniziato a offrire programmi di gestione dello stress. E ha concluso che la sua capacità di aiutare gli altri alle prese con problemi di salute mentale è stata “molto più potente” di qualsiasi delle sue imprese atletiche da record. “Quei momenti, quelle sensazioni e quelle emozioni per me sono anni luce migliori rispetto a vincere la medaglia d’oro olimpica. Sono estremamente grato di non essermi tolto la mia vita”.
Qui sotto il video dell’intera giornata al Kennedy Center, l’intervista con Phelps arriva a 1:28:35.