“Se un tifoso appartiene al club, perché non dovrebbero appartenervi i calciatori? Cambiare squadra non è la stessa cosa che cambiare lavoro, anche se un giocatore è, come viene attualmente riconosciuto, un professionista che si guadagna da vivere con le sue gambe” (Eduardo Galeano. Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer).
17 gennaio 2021, ore 19.55. Nello stadio Meazza svuotato dalla pandemia di covid-19, va in scena l’ennesima puntata del derby d’Italia tra Inter e Juventus. Una partita tra due rivali storiche del calcio italiano che negli ultimi dieci anni di dominio bianconero ha quasi sempre proposto lo stesso copione, anche se questa volta l’Inter è davanti e parte con i favori del pronostico.
Poco prima di entrare in campo Arturo Vidal – approdato all’Inter a inizio stagione dopo un paio di campionati un po’ opachi giocati nel Barcellona di Messi – intravede Giorgio Chiellini, difensore simbolo del calcio italiano, amico ed ex compagno di squadra alla Juventus di cui oggi è capitano. Nella Juventus il centrocampista cileno (che oggi va per i 34 anni) ha giocato dal 2011 al 2015, all’apice della sua carriera da calciatore.
I due si sorridono, Vidal si avvicina e abbraccia affettuosamente Chiellini. Scene del genere non sono proprio una rarità, ma c’è un dettaglio che non sfugge alle telecamere e (soprattutto) agli occhi dei tifosi delle due squadre. Poco prima di staccarsi dall’abbraccio, Vidal bacia con trasporto la maglia di Chiellini proprio dove è piazzato lo stemma della Juventus.
In altri tempi (e per molto meno) si sarebbe incrinato irreparabilmente il rapporto con la tifoseria (in parole più povere, Vidal avrebbe dovuto fare le valigie e trasferirsi altrove). Nei giorni successivi invece, sarà stata l’assenza di tifosi allo stadio, il secco 2-0 finale o il gol di testa (anzi, di cresta) dello stesso Vidal che ha aperto la strada al convincente successo dell’Inter, a parte qualche esagitato sui social e gli sfottò dei tifosi bianconeri, la storia si è chiusa lì.
Il giocatore cileno comunque si era affrettato a spiegare su Instagram che la sua intenzione “non è mai stata quella di baciare lo stemma di un’altra squadra. Il bacio è stata una dimostrazione di affetto per un fratello che mi ha dato il calcio, con il quale ho vissuto anni meravigliosi insieme e ci vogliamo bene. Io rispetto la mia squadra, i nostri tifosi e la gente che ha avuto fiducia in me per difendere e continuare a far crescere la storia di questo bellissimo club.”.
Insomma, tranquilli, vi pare che sono così sprovveduto da dichiarare il mio amore per una squadra diversa da quella per cui gioco?
Cambiare squadra non è la stessa cosa che cambiare lavoro.
Dall’episodio però è riemerso un tema che attraversa in modo un po’ strisciante la storia del calcio, cioè il ruolo che svolge nella psicologia del giocatore di calcio l’attaccamento ai colori di una squadra, quella in cui milita, quella a cui è rimasto più legato, quella per cui fa il tifo o, a volte, anche quella della propria città. Insomma, è vero, le prime pagine dei giornali le prendono le cosiddette “bandiere del calcio”, quei giocatori monogami che amano i rapporti esclusivi, leggende viventi, simboli inscalfibili di intere epoche calcistiche (Ryan Giggs per il Manchester United o Paolo Maldini per il Milan, per citare due tra i più longevi, ma ci sono altri esempi) giocatori spesso cresciuti proprio nelle giovanili delle rispettive squadre, sempre fedeli, a volte fino all’autolesionismo (quante volte si è parlato di come sarebbe potuto essere più vincente Francesco Totti se avesse scelto di lasciare la sua Roma per uno delle tante grandi squadre che lo hanno cercato nel corso della sua carriera). Tutta gente che tra lo spogliatoio e il campo di allenamento poteva muoversi a occhi chiusi, considerata dalla gente tutt’uno con la squadra, l’incarnazione dello spirito di attaccamento dei tifosi.
Un fenomeno questo dei giocatori bandiera che va verso l’estinzione perché è in aperto contrasto con meccanismi del calcio di oggi con le sue infinite sessioni di mercato e la ruvida realtà dei vincoli di bilancio. Se prima trovare un calciatore fedele alla maglia per più di dieci anni era abbastanza comune, oggi invece rappresenta l’eccezione: solo quattro giocatori in tutta la serie A.
Le cose però sono spesso più complicate di così e alcuni giocatori lo scontano e lo hanno scontato sulla propria pelle.
Roberto Baggio e la sua Fiorentina
Uno dei casi più clamorosi di rapporto complicato con un’altra squadra riguarda Roberto Baggio, forse il talento più puro prodotto dal calcio italiano degli ultimi trenta-quarant’anni.
Futuro pallone d’oro e star del mondiale di Italia 90, Baggio si è da poco trasferito alla Juventus dalla Fiorentina dopo un’estenuante trattativa degna di uno psicodramma nella quale alle dichiarazioni d’amore e di eterna fedeltà alla città e ai tifosi (“Se mi vogliono vendere, devono essere loro a assumersene le responsabilità. Basta con i giochi sulla mia pelle”) era seguita la decisione (inevitabile) da parte del divin codino di concedersi alla squadra più odiata dai fiorentini che non l’avevano presa proprio bene (“Ero circondato dal risentimento di quelli che avrei voluto fossero ancora i miei tifosi”).
Torna per la prima volta a Firenze con la maglia bianconera il 6 aprile del 1991. In campo Baggio è un fantasma, paralizzato dall’emozione non si vede quasi fino 6° del secondo tempo; abbozza uno slalom, entra in area quasi per inerzia e si procura un rigore. È lui il rigorista della squadra ma si rifiuta di tirarlo (lo tira e lo sbaglia De Agostini). La partita finirà 1-0 per la Fiorentina. Un quarto d’ora dopo Maifredi lo sostituisce. Baggio esce dal campo ma va subito verso gli spogliatoi accolto dai fischi e dalle bottiglie lanciate dagli spalti, poi, all’improvviso gli piove davanti anche una sciarpa della Fiorentina. La raccoglie e se la mette al collo come un riflesso, si gira a salutare il suo ex pubblico e all’improvviso avviene il miracolo. I fischi si trasformano in applausi e poi in una vera e propria ovazione da parte di tutto lo stadio di fede viola.
È il momento in cui finalmente la tifoseria e il campione riescono a buttarsi alle spalle i ricordi della separazione. C’è voluto del tempo, un nuovo incontro, una dimostrazione d’affetto, il coraggio di mostrarsi deboli, insomma un repertorio psicologico all’altezza della sua fama di calciatore, ma la pace tra Baggio e i tifosi della Fiorentina si finalmente è consumata.
E conta poco che Gigi Maifredi (teorico di un calcio champagne che fece ubriacare soprattutto i tifosi juventini e gli concesse una sola stagione alla corte della Vecchia Signora) anni dopo diede la sua versione dei fatti: “Vorrei ristabilire una verità storica: a decidere che il rigore non lo calciasse Baggio ma De Agostini fui io. Il giorno prima Roberto mi aveva spiegato che Mareggini era stato suo compagno di rieducazione dopo l’infortunio. In attesa di rientrare, passava ore a tirargli rigori. Ricordo anche il numero che fece, mi disse ‘gliene avrò calciati ottomila’, Matteo di me sa tutto”.
La storia del gran rifiuto di Baggio illustra bene i poli tra cui si muove il sentimento di attaccamento alla maglia del giocatore di calcio. Da una parte ci sono i tifosi (con la sottospecie più agguerrita ed emotiva degli ultrà) con la città che è un po’ come la casa dove si svolge la relazione, col suo mood distintivo: per restare in Italia, si va dalla passione calcistica sfrenata e pervasiva dei napoletani e dei romani al tifo più tranquillo e riservato di una città come Torino. Dall’altra c’è la squadra, che è insieme la società con la sua storia di vittorie e sconfitte (a volte, ahimé, soltanto le seconde), il blasone, lo stile, la storia e, soprattutto, come viene raccontata quella storia; poi c’è la dirigenza che si inserisce nel rapporto con i tifosi dettando le regole del rapporto, frapponendo spesso le ragioni del portafoglio e dell’interesse a quelle del sentimento incondizionato, dell’amore che sono tipiche del tifoso; e infine i compagni di squadra che nel calcio di oggi (ultraprofessionale e mercenario) sono sempre più decisivi nelle scelte di carriera e di vita.
Le bandiere oggi, simbolo di un calcio moribondo
Ne abbiamo parlato con Luca Di Bartolomei, figlio del grande Agostino, capitano indimenticato e bandiera della Roma scudettata degli anni Ottanta, morto suicida nel 1994.
Dal suo punto vista di esperto di comunicazione (ha fondato Atlas, una società di consulenza strategica e comunicazione istituzionale) ma anche di profondo conoscitore del mondo del calcio, Luca sottolinea alcune differenze tra la situazione attuale in Italia e quella di qualche decennio fa.
“In generale, i calciatori non vanno d’accordo. Non andavano d’accordo prima e non vanno d’accordo adesso. La differenza è che prima non esisteva un principio correntizio che invece adesso esiste e che spesso non è legato a un rapporto sportivo o umano ma a un rapporto di scuderia. Le filiere, individuabili abbastanza chiaramente, sono nella dirigenza e nei procuratori e questo influenza molto i rapporti tra i giocatori. E non è un caso che le cordate di spogliatoio contino più di quanto non conti la dialettica tra allenatore e squadra”, riassume Di Bartolomei senza girarci molto intorno.
“Questo inevitabilmente ha modificato nella logica il rapporto che c’è tra la bandiera e la squadra perché oggi il giocatore simbolo è abbastanza mal tollerato nella squadra, soprattutto quando si tratta di un top player: alcuni giocatori hanno una dimensione veramente mondiale e rischiano di diventare più importanti della squadra stessa per cui giocano e questo inevitabilmente crea un paradigma diverso”.
Oggi il giocatore simbolo è abbastanza mal tollerato nella squadra, soprattutto quando si tratta di un top player.
Di Bartolomei sottolinea il fatto che in Italia abbiamo avuto due decenni in cui si sono affermate delle enormi cordate di potere, un fenomeno che ha prodotto il livellamento verso il basso delle dirigenze sportive che, a loro volta, attraverso i rapporti stabiliti con i procuratori hanno di fatto messo un tappo al mercato, lavorando soltanto sulle plusvalenze e abbattendo il valore qualitativo e quantitativo del nostro calcio.
“L’attaccamento alla maglia e le bandiere oggi sono storie autoimposte, raccontate. La richiesta delle bandiere da parte della tifoseria è un bisogno (indotto) non del giocatore migliore ma di qualcuno che consenta il mantenimento dello status quo, una risposta corporativa che permette il perpetuarsi di un’economia non sana del calcio”, prosegue Di Bartolomei. “La bandiera in sé è diventata una cancrena, perché non è più legata alla capacità dell’uomo di lasciare un segno come professionista al netto del tempo che trascorre all’interno della società, ma è una gabbia in cui ci si lascia incasellare per comodità, per una spinta di sistema che però appiattisce tutto verso il basso”.
La ricerca del sentimento perduto…
Di fronte a queste riflessioni un po’ desolanti sulle sorti del nostro calcio e sul rapporto tra i calciatori e la maglia, è consolatorio il pensiero che non sono poi così lontane le generazioni di giocatori capaci di entrare in relazione con la squadra, i compagni e i colori della maglia senza subire le strumentalizzazioni di cui parla Di Bartolomei, con equilibrio e sentimento insieme.
Gianfranco Zola era uno di quei giocatori, per citare un esempio illustre ma ancora abbastanza recente. Un campione capace di riprodurre il suo ruolo di giocatore simbolo dell’attaccamento alla maglia praticamente in tutti i contesti in cui si è trovato a giocare, dal primo periodo italiano tra Napoli e Parma, alla sua lunga stagione da emigrante di lusso al Chelsea, fino al ritorno al Cagliari, alla terra d’origine, dove ha concluso la carriera (la sua storia, maglia per maglia ve l’avevamo raccontata).
Che durino questi giocatori, che durino se non vogliamo perdere per sempre la drammaticità, l’emozione e il sentimentalismo.
E se è vero che il calcio lo fanno i tifosi, con la loro passione incondizionata e vitalizia alla squadra del cuore, come dimostrano anche queste partite surreali giocate in stadi deserti per colpa della pandemia – una situazione che gli stessi giocatori, nonostante l’accusa di essersi trasformati ormai in superprofessionisti mercenari, soffrono maledettamente e faticano a considerare normale – allora bisognerebbe provare a valorizzare quello che conta davvero per chi considera lo spettacolo del calcio e i suoi protagonisti una delle ragioni per cui vale la pena vivere.
“Abbiamo bisogno soltanto che la nostra lealtà abbia senso, che non si trasformi in un moto dell’animo vuoto e senza scopo, che non ci scopriamo ad adorare una sfinge o un mero vocabolo … E magari il fatto è che nel calcio vi sia qualcosa di più forte degli infiniti tradimenti cui oggi si vede sottomesso. Qualcosa di più forte e più sentimentale dei dirigenti volenterosi e degli allenatori egocentrici … Che durino questi giocatori, che durino se non vogliamo perdere per sempre la drammaticità, l’emozione e il sentimentalismo” (Javier Marías. Selvaggi e sentimentali. Einaudi).