“Una ragazza che indossa lo hijab può fare qualsiasi cosa, e può anche giocare a basket ad alti livelli”, non ha dubbi Rola al Ferekh. Rola fa parte della squadra di pallacanestro femminile del Palestine Youth Basketball, impegnata da oggi al 12 luglio nell’annuale torneo del progetto Basket Beats Borders, giunto oramai alla sua terza edizione.
Dopo due edizioni a Roma, quest’anno il torneo vede le ragazze impegnate nei Paesi Baschi. Se un torneo estivo internazionale amatoriale suona come un’iniziativa normale, in questo caso è invece un’impresa eccezionale. Queste ragazze, infatti, palestinesi, siriane e libanesi, vivono nel campo profughi di Shatila, in Libano. Per loro non è semplice ottenere documenti necessari per viaggiare dentro e fuori dal Paese e ogni anno ottenere passaporti e visti è un passaggo non scontato. Proprio quest’anno l’ultimo visto è stato ottenuto dopo una lunga battaglia legale vinta solo pochi giorni prima della partenza.
Proprio permettere alle ragazze di conoscere realtà diverse da quella del campo, per dare loro forse l’unica opportunità che avranno di viaggiare, di confrontarsi con ragazze di altre nazioni, è uno degli obiettivi del torneo. “Il progetto di Basket Beats Borders è nato principalmente da un incontro”, racconta David Ruggini, ideatore dell’iniziativa. “Il mio quando ho incontrato Majdi, che è stata la prima persona che ho incontrato al campo di Shatila. Attraverso di lui ho potuto visitare e cercare di comprendere quello che è la realtà e la vita di un profugo, o comunque quella di un profugo palestinese in Libano”.
In realtà, ci racconta David in una chiacchierata telefonica, Basket Beats Borders è frutto di due percorsi distinti cominciati prima del 2017, anno della prima edizione del torneo: il suo è quello delle atlete.
La squadra è stata creata nel 2012 dall’allenatore Majdi Majzoub all’interno del campo di Shatila, lo stesso anno in cui è ricorso il trentesimo anniversario del massacro di Sabra e Shatila (quello raccontato, per esempio, anche nel famoso graphic movie, Valzer con Bashir).
Come illustra molto bene Francesca Mannocchi su L’Espresso, “Chiamarlo campo profughi è un inganno, Shatila è un quartiere e i suoi abitanti non sono rifugiati: le nuove generazioni sono nate in Libano. E gli anziani sono qui da decenni. Dal 1948 (…). Sono passati settant’anni e a casa non sono ancora tornati”. “La vita nel campo, nella maggior parte delle case, è come in un sepolcro senz’aria, senz’acqua, né sole né corrente elettrica”, riporta invece Sport Against Violence. E dal campo è difficilissimo emanciparsi, lo stato palestinese non è riconosciuto dal Libano e ai palestinesi residenti in libano è proibito l’accesso a numerose professioni, è vietato richiedere la cittadinanza libanese e avere delle proprietà, o anche solo creare delle associazioni.
In questa situazione tanto difficile, gli adolescenti sono quelli che soffrono di più: nati e cresciuti in Libano non hanno prospettive nè dentro nè fuori dal campo. E per le ragazze è ancora più complicato. Un campo da basket, due ore di allenamento, una partita: per loro è molto più che sport, tutto nasce dalla determinazione di Majdi. “Noi crediamo che ogni ragazza al mondo abbia il diritto di giocare, di allenarsi (…)”, racconta. “Per le persone palestinesi, per le ragazze palestinesi non ci sono opportunità di fare sport, quindi abbiamo pensato di incoraggiarle a giocare”.
Una ragazza che indossa lo hijab può fare qualsiasi cosa.
“Non è facile fare una squadra di ragazze”, prosegue Majdi che allena anche una squadra di calcio maschile. “Ho pensato che fosse più semplice cominciare da me e poi aprire la strada agli altri. Allora ho coinvolto prima mia figlia poi sono andato dai miei amici e ho chiesto loro di lasciare giocare le loro figlie, di lasciarle provare e di farle tornare se lo desideravano. All’inizio hanno rifiutato, a causa di convinzioni legate alla tradizione, ma poi le ragazze dopo i primi allenamenti tornavano a casa felici e hanno chiesto loro stesse ai genitori di poter giocare”.
Anno dopo anno da quattro cinque ragazze, la squadra è passata a dieci giocatrici regolari più altre sei – dieci che vengono quando riescono a coinciliare gli allenamenti con lo studio, il lavoro e la famiglia. Ci sono ragazze palestinesi, libanesi e siriane, tutte tra i 15-16 e i 21 anni. C’è anche una ragazza senegalese. Attraverso lo sport imparano molto su loro stesse, su quello che vogliono e possono fare, sui loro diritti. “Quando ho cominciato ad allenare volevo anche implementare una metodologia dell’allenamento che aiutasse le ragazze a sviluppare una personalità forte, che le rendesse più pronte nei riflessi, nei comportamenti, nelle emozioni, perché potessero imparare a gestire al meglio le situazioni in cui si trovano”, racconta ancora l’allenatore.
In parallelo al lavoro di Majdi, David iniziava il percorso che lo avrebbe portato in Libano. Lo ha cominciato in Grecia, dove era andato a visitare un campo profughi durante la crisi dei migranti e dove ha conosciuto molto profughi siriani. “Da lì è venuta la curiosità per il Libano, dove si trova gran parte dei profughi in fuga dalla Siria”, ci racconta al telefono. Almeno un milione, secondo l’Unhcr. Tramite una sua amica francese David è poi arrivato a Beirut e lì ha conosciuto Majdi e le sue giocatrici. Da allora ha cominciato a collaborare con loro e insieme ai suoi contatti a Roma ha creato il progetto Basket Beats Borders e un primo torneo con le squadre femminili dell’Atletico San Lorenzo e di Acrobax e anche di altri paesi. Non è stato semplice.
“La problematica dei documenti impedisce loro (alle ragazze) di uscire. A causa del fatto di essere palestinesi in Libano, non hanno la possibilità di spostarsi come noi ma neanche come i libanesi stessi che hanno molti più diritti rispetto a loro. Quindi proprio nel cercare di rompere questa barriera, nel cercare di abbatterla, abbiamo trovato il modo di farlo attraverso lo sport e spero che questa cosa possa continuare anche in futuro”, spiega nel video.
Noi crediamo che ogni ragazza al mondo abbia il diritto di giocare, di allenarsi…
Un successo che, come spesso accade, rende possibile sognare più in grande e porsi obiettivi sempre più ambiziosi. Come quello di dare una “casa” alla squadra. È di pochi giorni fa la notizia finalmente sono cominciati i lavori per la costruzione di un centro sportivo dentro al campo, grazie ai finanziamenti ottenuto con una campagna di Crowdfunding. Questo permetterà alle ragazze di avere un posto dove allenarsi sempre, anche d’inverno quando giocare all’aperto è quasi impossibile.
Oppure come l’obiettivo di responsabilizzare sempre di più le ragazze, in modo che possano portare avanti sia la squadra, sia il progetto Basket Beats Borders autonomamente. “Senza mai far mancare loro il supporto necessario, ma per farlo diventare un progetto loro”, ci racconta ancora David. “Stiamo cominciando con il formare alcune ragazze per diventare loro stesse allenatrici, poi vorremmo fare in modo che comincino a costruirsi loro i contatti con le squadre estere, sapere come richiedere i visti, organizzare le trasferte e via dicendo”.
In futuro, poi, David vorrebbe espandere il progetto al di fuori dei confini dello sport e costruire dei percorsi di studio e formazione all’estero che potrebbero avere ricadute positive anche sulle comunità a cui appartengono le ragazze. Intanto, c’è un torneo da vincere. E poi ad Agosto, al loro ritorno, le ragazze di Shatila accoglieranno le giocatrici romane delle passate edizioni per giocare ancora insieme. Questa volta nel ruolo loro di ospiti che mostrano un mondo e una realtà tanto diversa alle loro amiche italiane.