Quello della violenza ostetrica è un fenomeno complesso: esiste ma è difficile da definire, esiste ma è difficile da quantificare, esiste ma le radici sono molteplici. Si potrebbe dire, semplificando, che con questo termine si intendono le violenze e gli abusi subiti dalle donne durante la gravidanza o al momento del parto.
Il termine violenza ostetrica e la sua definizione giuridica nascono ufficialmente nel 2007, in Venezuela, quando viene emanata la Ley orgánica sobre el derecho de las mujeres a una vida libre de violencia, che contiene un articolo in cui si specifica la definizione del termine: “Si intende per violenza ostetrica l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi delle donne da parte del personale sanitario, che si esprime in trattamenti disumani, nell’abuso della medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avendo come conseguenza la perdita di autonomia e di capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità e impattando negativamente sulla qualità della vita delle donne”. Da questo momento il fenomeno entra, se non al centro, quantomeno in una posizione non più marginale delle questioni di politica sanitaria. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) comincia ad affrontarlo e nel 2014 pubblica una dichiarazione per la “prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere” in cui viene riconosciuta la portata e la diffusione del problema. Secondo l’Oms a seconda dei contesti e dei Paesi la violenza verso le donne che partoriscono si presenta in forme diverse, che possono comprendere “l’abuso fisico diretto, la profonda umiliazione e l’abuso verbale, procedure mediche coercitive o non acconsentite (inclusa la sterilizzazione), la mancanza di riservatezza, la carenza di un consenso realmente informato, il rifiuto di offrire un’adeguata terapia per il dolore, gravi violazioni della privacy, il rifiuto di ricezione nelle strutture ospedaliere, la trascuratezza nell’assistenza al parto con complicazioni altrimenti evitabili”. L’Oms riconosce però la difficoltà di descrivere il fenomeno perché “nonostante le evidenze esistenti suggeriscano che le esperienze delle donne vittime di mancanza di rispetto e abuso durante il parto siano largamente diffuse, al momento non vi è unanimità a livello internazionale su come definire queste pratiche e su come misurarle scientificamente”.
“Il punto è come accompagni la donna, non tanto e non solo quello che fai”
In merito alla difficoltà di stabilire i confini, la ginecologa Elisabetta Canitano ha detto a Senti chi parla che secondo lei “il punto è come accompagni la donna, non tanto e non solo quello che fai. La violenza ostetrica è non essere in quel momento con la donna e il suo bambino. Se la donna ha percepito una violenza probabilmente vuol dire che da qualche parte c’è stata, anche se il personale ha seguito le procedure corrette e sostenute dalle evidenze”. Il fenomeno della violenza nei reparti di ostetricia, quindi, non si può ridurre a una questione di procedure. Esistono tuttavia linee guida e raccomandazioni che possono orientare gli operatori sanitari. Per avere un’idea di quali siano le procedure consigliate e quali quelle sconsigliate basta dare un’occhiata alle raccomandazioni dell’Oms, che vengono aggiornate periodicamente e di cui l’ultima versione risale al 2018. Nel documento, non solo vengono sconsigliate tutta una serie di pratiche ancora oggi troppo diffuse, come l’episiotomia di routine o il monitoraggio continuativo del battito cardiaco fetale, ma viene anche ricordato che avere un’esperienza positiva significa partorire in un contesto fisicamente e psicologicamente sicuro.
Negli ultimi anni si è iniziato a parlare di violenza ostetrica anche in Italia, soprattutto grazie all’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica (OVOItalia). “Siamo madri, ci siamo avvicinate al tema poco dopo la nascita delle nostre figlie, nate nello stesso anno”, ci racconta Alessandra Battisti, avvocato e co-fondatrice dell’Osservatorio insieme a Elena Skoko, ricercatrice e attivista per i diritti delle madri. “Veniamo da due esperienze di assistenza al parto diametralmente opposte, la mia estremamente negativa, quella di Elena estremamente positiva”. Si sono incontrate a Roma nel 2012 e da lì è iniziato un percorso di studio, ricerca e advocacy proprio nell’ambito dell’assistenza alla nascita in relazione alla violenza ostetrica (che all’epoca non si chiamava così). “Sin dall’inizio – continua Skoko – ci siamo confrontate anche con gruppi di ricerca e attivisti di altri Paesi: alcuni di loro avevano iniziato a usare il termine violenza ostetrica per generare un cambio di passo, perché con il termine umanizzazione della nascita non eravamo giunte a risultati significativi. Parlando di violenza ostetrica siamo riuscite a generare una tensione ma anche un’apertura verso quella che era la vera problematica”. Il termine violenza ostetrica, soprattutto in Italia, è stato all’inizio molto destabilizzante perché, come ci spiega Elisabetta Colciago, ostetrica e ricercatrice presso l’Università degli studi Milano-Bicocca, “siamo l‘unico Paese in cui il termine ostetrica indica una professione. Molte donne, quindi, hanno pensato che si parlasse della violenza fatta dal personale ostetrico e non, come è giusto, del non rispetto e dell’abuso durante tutta l’assistenza al parto e al percorso nascita”.
“Siamo l‘unico Paese in cui il termine ostetrica indica una professione”
Lo scopo dell’Osservatorio è quello di produrre dati, raccogliere testimonianze e generare ricerca, dare voce alle madri, sensibilizzando il pubblico e le istituzioni sul tema dei diritti umani nella nascita: “Nel 2016 abbiamo lanciato la campagna Basta tacere – le madri hanno voce, insieme a molte altre associazioni”, racconta Skoko. “Dopo la campagna, durata 15 giorni, abbiamo deciso di continuare a raccogliere le storie e i dati delle donne, e così è nato l’Osservatorio”. Da quel momento le co-fondatrici dell’Osservatorio hanno cercato di aprire un dialogo con le istituzioni, per far sì che anche in Italia venisse riconosciuta la portata del fenomeno. Poiché, però, le istituzioni non erano interessate a produrre questo tipo di dati, nel 2017 OVOItalia con le Associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo hanno commissionato loro stesse all’istituto Doxa un’indagine che potesse essere rappresentativa e statisticamente valida sulla violenza ostetrica. Dall’indagine Doxa, svolta su un campione di circa 400 donne che avevano avuto un figlio negli ultimi 14 anni, è emerso che circa il 21% delle madri dichiarava di aver subito una forma di violenza ostetrica. Un’esperienza così traumatica che avrebbe spinto il 6% delle donne a scegliere di non affrontare una seconda gravidanza. Qui il comunicato stampa di OVOItalia, in cui oltre ai risultati nel dettaglio è possibile leggere anche la nota metodologica.
“Secondo gli ostetrici ginecologici ospedalieri italiani non dovevamo più parlare di questo tema perché stavamo ledendo il loro ruolo descrivendo una realtà che non esisteva”
Nonostante la pubblicazione dei risultati il dialogo con le istituzioni non c’è stato, e continua a non esserci: “L’associazione degli ostetrici ginecologici ospedalieri italiani (Aogoi) ha disconosciuto questi dati, ritenendoli un attacco alla categoria. Secondo loro non dovevamo più parlare di questo tema perché stavamo ledendo il loro ruolo descrivendo una realtà che non esisteva”, racconta Battisti. L’Aogoi ha infatti subito preso posizione, negando che la realtà degli ospedali fosse quella rappresentata dai dati dell’Osservatorio e provvedendo a produrre dati, con l’intento di mostrare la virtuosità dei punti nascita italiani. Dalla loro ricerca, in effetti, emerge che circa il 95% delle intervistate si dichiarava soddisfatta della qualità dei servizi dei reparti di ostetricia. Il problema, però, è che nella ricerca non si parla di violenza ostetrica. “La ricerca fatta dall’Osservatorio è stata valutata dal punto di vista metodologico come non pertinente da parte dell’Aogoi, ma è una ricerca che ha dato voce alle donne e sebbene si tratti di testimonianze vanno sempre prese in considerazione e mai sottovalutate. La ricerca che invece ha condotto Aogoi non è precisamente sulla violenza ostetrica, ma sulla soddisfazione materna a livello regionale. E nonostante in questi anni la soddisfazione materna sia diventata uno degli indicatori a livello internazionale più importanti da misurare nell’ambito dell’assistenza ostetrica durante la maternità e siano quindi state prodotte delle scale per misurarla, dall’Aogoi non sono state utilizzate”, commenta Colciago. “Credo che sia necessario istituire un osservatorio a livello nazionale istituzionalizzato che renda necessaria la ricerca da questo punto di vista e riconosca che esistono forme di abuso e non rispetto della donna durante tutto il percorso nascita”.
“Esistono forme di abuso e non rispetto della donna durante tutto il percorso nascita”
Secondo Alessandra Battisti la mancata presa in carico del problema delle istituzioni ha radici profonde e complesse: “Ci sono stati professionisti sanitari che si sono avvicinati al tema e hanno partecipato ai nostri convegni, ma ancora non è avvenuto un cambiamento significativo. Ancora oggi, purtroppo, nonostante le molteplici sentenze della Suprema Corte di Cassazione sul diritto al consenso informato e alla libera autodeterminazione ai trattamenti sanitari, la medicina continua ad avere un’impronta paternalistica”. Impronta paternalistica che quando si parla di medicina di genere sembra essere ancora più presente. Anche in un rapporto della relatrice speciale sulla violenza contro le donne Dubravka Šimonović, depositato alle Nazioni Unite nel 2019, le origini del fenomeno vengono individuate, più in generale, negli stereotipi di genere, nella violenza che colpisce le donne in quanto tali e nel rapporto squilibrato tra personale sanitario e pazienti. Per questo è importante dare voce alle donne. “La novità di quello che noi abbiamo fatto in questi anni – continua Battisti – è stato proprio il cambio di paradigma. Quando si parlava di umanizzazione della nascita le donne non avevano diritto a contribuire, erano sempre state relegate a oggetti del discorso e non a soggetti. La campagna Basta tacere ha ribaltato i ruoli, dando voce alle donne e legittimando la loro posizione. È fondamentale, infatti, consentire alle donne di intervenire sulle politiche sanitarie che le riguardano, altrimenti ci sarà sempre qualcun altro che decide della loro salute, del loro corpo, delle loro scelte individuali”.
“È fondamentale consentire alle donne di intervenire sulle politiche sanitarie che le riguardano, altrimenti ci sarà sempre qualcun altro che decide della loro salute, del loro corpo, delle loro scelte”
Ma non c’è solo questo: sempre secondo il rapporto della relatrice speciale delle Nazioni unite “i problemi dei sistemi sanitari – come la mancanza di personale, l’elevato afflusso di pazienti, i salari bassi, i lunghi turni e la mancanza di infrastrutture – creano condizioni di lavoro stressanti che facilitano un comportamento poco professionale”. A tutto questo si è aggiunta negli anni l’eccessiva medicalizzazione del percorso nascita. Secondo Elisabetta Colciago, infatti, sebbene negli anni l’assistenza ostetrica sia migliorata dal punto di vista delle pratiche igienico-sanitarie, il rispetto della fisiologia del percorso nascita è mancato e le donne si sono viste espropriare la competenza che avevano innata del saper partorire e del saper valutare la propria salute e quella del bambino durante e dopo il parto. “La medicalizzazione massiccia del percorso nascita ha portato all’espropriazione delle competenze materne e oggi è visto come normale che una donna entri in ospedale e le si dica cosa fare senza che possa scegliere. Il compito di noi professionisti sanitari non è dire loro cosa devono fare, ma informarle sulle possibili scelte che hanno a disposizione per giungere al miglior esito possibile di salute. Quello che manca è un modello assistenziale ed organizzativo che dia la possibilità alla donna di essere veramente al centro dell’assistenza”.
Che l’eccessiva medicalizzazione sia un problema e che dovremmo smettere di considerare il parto una patologia trova d’accordo anche Elisabetta Canitano. La conseguenza dovrebbe essere che “l’assistenza alla gravidanza fisiologica avvenga sul territorio e non in ospedale. Mandare i sani in ospedale è un errore drammatico”. Quando ne parla Canitano ha in mente un progetto preciso, un esperimento di assistenza portato avanti qualche anno a Ostia, all’Ospedale G.B. Grassi (Asl Roma 3). “Nel 2009 abbiamo aperto Acqualuce, la prima casa del parto pubblica in Italia, interamente a gestione ostetrica. Era una struttura di legno e vetro nella pineta dell’ospedale, relativamente vicino al blocco parto, e quindi, qualora qualcosa fosse andato storto, le ostetriche avrebbero potuto facilmente raggiungere il reparto di ostetricia. Acqualuce inoltre irradiava di sé il blocco parto: in ospedale sapevamo che dall’altra parte c’erano donne a cui era concesso di partorire in acqua, di rotolarsi sul tappeto, di cantare, di fare quello che ritenevano migliore per loro in quel momento e quindi ci veniva più difficile dire «sbrigati»”. L’esperienza purtroppo si è conclusa nel 2015 per assenza di personale e non è mai stata ripetuta, nonostante le raccomandazioni dell’Oms sostengano che i parti fisiologici debbano avvenire in luoghi dove la medicalizzazione sia il più bassa possibile e che la figura professionale di riferimento dovrebbe essere l’ostetrica.
“Questa sarebbe una soluzione alla violenza ostetrica: che la medicina si conformi alle esigenze della donna e non il contrario”
E proprio seguire le raccomandazioni, le linee guida e le evidenze scientifiche potrebbe aiutare a risolvere il problema della violenza ostetrica. “Tutte le linee guida dicono che il modo migliore per erogare un’assistenza personalizzata per la donna – e per tutta la famiglia – è fornire un modello assistenziale in cui l’ostetrica sia la professionista di riferimento per la donna in tutti i percorsi nascita. L’ostetrica, infatti, nasce come la professionista esperta della fisiologia della gravidanza, del parto, del travaglio e del dopo nascita, e nasce con una filosofia dell’assistenza diversa da quella di tutti gli altri professionisti perché si occupa principalmente del benessere, del mantenimento dello Stato di salute, e non della cura della patologia”, spiega Colciago. “In questo modo si può fornire un’assistenza basata sulla relazione e ancora una volta le evidenze ci dicono che la relazione, la comunicazione, lo scambio sono la base per rendere la donna sicura e consapevole delle proprie scelte. I nostri sistemi sanitari devono iniziare a basare le proprie scelte sulle evidenze”.
Nonostante la strada da fare sia ancora tanta, secondo Colciago è importante che si parli dell’argomento per “arrivare a definire a livello internazionale cosa sia la violenza durante il percorso nascita, a concordare che le donne hanno bisogno di sicurezza, di rispetto e che anche il linguaggio è importante, per avviare degli studi con una base forte che diano risultati importanti per implementare poi servizi focalizzati sulle donne e sulle loro famiglie”. E, soprattutto, come sottolinea Canitano, è sempre più importante che si inizi a mettere al centro la donna. “Questa sarebbe una soluzione alla violenza ostetrica: che la medicina si conformi alle esigenze della donna e non il contrario, garantendo a ciascuna l’esperienza individuale a cui ha diritto”.
Durante la pandemia il fenomeno della violenza ostetrica è drammaticamente aumentato. Di un aspetto di questo problema ne abbiamo parlato qui.