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Valle del Sacco: una storia di fossi, interramenti e smaltimenti sospetti


Qui è dove proviamo a raccontare di come Colleferro ha scoperto di avere un rapporto in crisi con madre fabbrica. Ma è anche la storia di come da questa ‘lotta interiore’ sia nato un livello profondo di consapevolezza, quella di avere un problema di inquinamento ambientale, di vedere la propria salute messa a rischio, ma di non sapere fino a che punto. Sono le storie di Fiorella, Francesco, Nello, Evaristo, Cristina e Aldo, è il racconto del loro impegno a fare di quella di Colleferro un’esperienza tutta particolare di mobilitazione ambientale e poi comunicazione del rischio in una situazione di incertezza.

Il fosso nella fotografia qui sotto è un piccolo affluente del Fiume Sacco e dà le spalle all’attuale sede degli Uffici della Asl di Colleferro (in verde). Come questo di fossi, nell’area industriale che corre accanto al fiume Sacco nella provincia di Roma e di Frosinone, ce n’erano e ce sono tantissimi e sono una delle origini dell’inquinamento del fiume e di questa valle attraverso cui esso scorre. Per uno scherzo o una rivincita del destino i locali della Asl sono ricavati da alcuni capannoni della vecchia fabbrica ed è proprio la Asl ad aver condotto uno studio epidemiologico e ad aver dimostrato che un secolo di veleni si è ormai depositato nel sangue degli abitanti della vallata.

Valle del Sacco Colleferro
Il breve tratto di un fosso che passa davanti agli stabilimenti dell’ex-SNIA BPD a Colleferro e vicino agli uffici dell’Asl di Colleferro – Fotografia di Claudio Colotti

“I piazzali delle industrie che smaltivano in maniera incongrua probabilmente venivano poi dilavati e i due fossi, Cupo e Gavozza, si riempivano”, ci racconta Fiorella Fantini dell’Unità operativa semplice dipartimentale Igiene degli alimenti e nutrizione sede di Colleferro, Asl Roma 5. “Questi due fossi sono stati i veri protagonisti della contaminazione”. Grazie a Fiorella – a servizio della Asl Roma 5 di Colleferro – e Francesco Blasetti, oggi in pensione, Colleferro ha preso consapevolezza di avere un problema di inquinamento ambientale e i due sono stati, assieme agli operai della fabbrica e all’aiuto della procura, protagonisti di un’esperienza particolare di mobilitazione ambientale e poi di comunicazione del rischio. Proprio qui, negli Uffici della Asl di Colleferro, è iniziato il nostro viaggio – assieme a Claudio Colotti al quale dobbiamo tutte le fotografie di questa serie – attraverso i territori della Valle del Sacco, nota poi alle cronache come la Valle dei veleni.

Fiorella Fantini e Francesco Blasetti negli uffici dell’Asl Roma 5 di Colleferro – Fotografia di Claudio Colotti

Quella di Colleferro è una storia di fossi, interramenti sospetti e smaltimenti illegali che hanno portato per anni i veleni dalle fabbriche alle acque, ai terreni, e, attraverso il foraggio, agli animali e infine, tramite la catena alimentare, alle persone che abitano lì. Quella di Colleferro è anche una storia di lotta, di partecipazione alla ricerca scientifica e di costruzione di consapevolezza sui temi dell’ambiente e della salute. Quella della Valle attraverso cui scorre il fiume Sacco è, infine, ancora oggi una storia di discariche e inceneritori, di autostrade, di archeologia industriale e di lastricati di amianto, di luoghi e territori che attendono di essere bonificati.

“Questi due fossi sono stati i veri protagonisti della contaminazione”

Segni d’oro, la città morandiana di Colleferro

“A pochi passi dalla biblioteca scorreva il fiume Sacco ed emanava un tanfo che ogni respiro era come se una cannonata mi avesse centrato il torace. Nessuno però sembrava farci caso. Gli utenti, come si dice, attraversano il cortile a testa bassa o conversando amabilmente tra di loro, quasi che l’aria fosse all’acqua di colonia.” Così Domenico Starnone, nel 2003, descriveva Montemori: alter ego letteraria di Colleferro, una cittadina a sud di Roma, da dove comincia la Valle del Sacco e soprattutto da dove il fiume diventa irrespirabile. Colleferro, come Montemori, è una città industriale nata principalmente in funzione della fabbrica: la Bombrini Parodi Delfino (BPD). La BPD nasce nel 1912 come industria specializzata nel settore bellico e in particolare in produzione di esplosivi, negli anni poi estenderà la produzione anche al settore meccanico e chimico. Le vicende della BPD ricalcano la storia italiana del primo novecento e non finiscono con l’incorporazione, nel 1968, da parte della SNIA Viscosa la cui attività proseguì a lungo affiancata anche da numerose altre industrie. Per Colleferro, nonostante gli sviluppi successivi, quei primi anni del secolo sono fondamentali e fondativi: è in quegli anni che nasce e si sviluppa il rapporto tra la cittadinanza e le fabbriche. Un rapporto inscindibile e ambivalente fatto di riconoscenza e conflitti.

Valle del Sacco Colleferro
La Caserma dei Vigili del fuoco, accanto alla Chiesa Parrocchiale di Santa Barbara – Fotografia di Claudio Colotti

L’ambivalenza è nella piazza principale la Chiesa di Santa Barbara, la patrona di vigili del fuoco e polveriere, che non sempre riuscì a proteggere gli operai dalle esplosioni che periodicamente avvenivano in fabbrica. La riconoscenza è l’ospedale Leopoldo Parodi Delfino, uno dei due fondatori del primo nucleo industriale. I conflitti tra operai e fabbrica, a Colleferro, si sono spesso concentrati su un aspetto: il male che le industrie stavano facendo ai propri lavoratori e alla città che avevano contribuito a fondare e far crescere, una lotta che iniziarono gli operai ed ereditarono successivamente cittadini e parte delle istituzioni. Ma vedremo poi.

Valle del Sacco Colleferro
La Chiesa Parrocchiale di Santa Barbara a Colleferro – Fotografia di Claudio Colotti

E così, nel febbraio 1977 la Federazione unitaria lavoratori chimici (Fulc) decise di coinvolgere i tecnici del Reparto ambiente di lavoro e i ricercatori di chimica del Consiglio nazionale delle ricerche, i tecnici e i ricercatori dell’Istituto superiore di sanità (Iss) e gli studenti di medicina dell’Università La Sapienza per svolgere tutti insieme un’indagine sull’ambiente di lavoro alla Snia di Colleferro. Gli operai sapevano bene che quanto succedeva in fabbrica, in condizioni poco sicure, era potenzialmente pericoloso per la salute loro e dell’ambiente e avevano intenzione di formarsi rigorosamente sulle materie legate alla salute sui luoghi di lavoro così da avere, per le proprie lotte, una solida base scientifica da cui partire.

Il Quaderno Fulc n.5 del 1977 in cui fu pubblicata l’indagine degli operai della Snia di Colleferro – Fotografia di Claudio Colotti

L’indagine fu pubblicata dalla Fulc in un quaderno in cui vengono perfettamente chiariti i concetti di nocività, fattori di rischio ed esposizione e in cui il sindacato appare consapevole dei limiti dell’analisi in quanto cosciente del rigore scientifico necessario per giungere da un’ipotesi a una certezza. Tutto comincia da qui. “Con Blasetti ne abbiamo fatte poche di battaglie! […] Ma spesso abbiamo trovato le porte sprangate. Le discussioni con la direzione erano aspre. Io lavoravo al settore meccanico-esplosivista e gli incidenti succedevano tutti i giorni e l’azienda negava. La battaglia l’abbiamo fatta insieme all’Iss, alla Università, alla Asl”, dichiara Nello ex operaio della BPD. A raccontare questa storia con Nello c’è anche Evaristo, ex-operaio della BPD anche lui, che ha lavorato nel reparto della ‘Chimica’, per tantissimi anni. Parliamo del suo reparto, quello che produceva pesticidi, tra cui il lindano, su cui torneremo ancora poco più avanti, che ha fatto accendere i riflettori su questa Valle. “Via Romana che attraversa tutta la fabbrica oggi è chiusa perché è parte del complesso industriale e porta allo Scalo di Colleferro: a sinistra era tutta Chimica a destra italcementi”, ci racconta Evaristo. “Nella Chimica nel corso degli anni hanno prodotto di tutto, dagli insetticidi ai detersivi, fino a organofosforici e organoclorurati”, aggiunge Blasetti.

Valle del Sacco Colleferro
Evaristo e Nello, ex operai di Colleferro – Fotografia di Claudio Colotti

Capiamo, nel ricostruire i fatti di Colleferro, che gli operai erano i più consapevoli di cosa accadeva ai rifiuti della fabbrica. Supportati dai funzionari dell’Asl disposti ad ascoltarli, come Fiorella Fantini e Francesco Blasetti, hanno messo in campo gli strumenti della lotta operaia a servizio della battaglia ambientalista, a servizio della salute della cittadinanza. “Il modo migliore di trattare le questioni ambientali è quello di assicurare la partecipazione di tutti i cittadini interessati, ai diversi livelli” riporta il Principio 10 della ‘Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo’ del giugno 1992. Questa frase sancisce proprio questo: la partecipazione della cittadinanza ai processi decisionali, attraverso un’informazione trasparente, è la chiave per riconoscere il diritto di ogni individuo a vivere in un ambiente che ne garantisca il benessere e la salute. A gennaio del 1990 all’interno del perimetro industriale della BDP di Colleferro, in un’area di circa 5 ettari, all’estremo confine settentrionale dello stabilimento, vengono individuate tre discariche di rifiuti industriali, a testimonianza che nel corso degli anni era stata effettuata, nello stabilimento, almeno fino al 1982, un’intensa attività di smaltimento e incenerimento di rifiuti industriali.

Dalla lotta operaia alla lotta ambientalista

“I fusti sono inviati al ‘campo spazzatura’ dove sono bruciati insieme agli altri residui di lavorazione. Il ‘campo spazzatura’, una buca a cielo aperto dove vengono bruciati i residui di tutte le lavorazioni, desta gravi preoccupazioni dal punto di vista ecologico e della salute dei cittadini di Colleferro […] Bisogna quindi visitarlo e fare tutte le analisi necessarie del terreno, dell’aria e delle acque per verificare il grado di inquinamento causato nell’ambiente circostante e la degradazione ambientale che ne deriva e verificare eventuali correlazioni con l’inquinamento dei pozzi artesiani”, si legge a pagina 34 della “Indagine sull’ambiente di lavoro alla SNIA di Colleferro” pubblicata sul numero 5 del Quaderni Fulc nel 1977. Furono ancora gli operai a guidare i consulenti tecnici nominati dal tribunale e i funzionari della Asl. “Noi arrivammo e trovammo un prato, ma in quell’occasione abbiamo individuato tre grandi aree di discarica che sono Arpa 1, Arpa 2 (ndr Il ‘campo spazzatura’ che corrisponde all’area Arpa 2) e Cava di Pozzolana in cui venivano riversati i rifiuti dell’industria”, racconta Fiorella, allora medico del Servizio Igiene Pubblica che, in seguito ad incarico ufficiale, assieme al dottor Blasetti, aveva partecipato a tutte le attività di sopralluogo, accertamento ed indagine sulle aree in questione.

“Queste aree sono state individuate e messe sotto sequestro nel 1990, ma in realtà, già in quel momento lo dicemmo e poi nel 2005 ne abbiamo avuto la prova, non erano contaminate solo queste aree, ma tutti gli spazi fra gli edifici produttivi, perché per abitudine si buttavano le cose per terra, l’inquinamento e la contaminazione erano molto più diffusi e interessavano tutto il territorio della fabbrica, tenuto conto che l’area della fabbrica insisteva su circa mille ettaro di terreno”. L’Arpa Lazio individuò la presenza di ingenti quantitativi di metalli pesanti e organoclorurati. “Nelle operazioni di bonifica di Arpa 1 furono trovati in quelle zone metri di fondo di materiale contaminato”, prosegue.

“Nelle operazioni di bonifica di Arpa 1 furono trovati in quelle zone metri di fondo di materiale contaminato”

Del 1991 è la perizia tecnica della Procura di Velletri sulle sostanze presenti nelle acque e nel terreno delle tre discariche industriali che rileva la presenza di metalli pesanti e pesticidi. Segue una rilevazione nel 1994, in cui due pozzi destinati all’approvvigionamento di acqua potabile (Stendaggi e Colosseo), gestiti dal Consorzio servizi acque potabili della Snia-BPD, risultano oggetto di inquinamento massivo da trielina. “Nonostante gli evidenti abusi, la procura di Velletri allora non riuscì a condannare nessuno perché all’epoca la domanda era se quegli interramenti e quegli sversamenti fossero stati antecedenti o successivi all’82”, racconta Blasetti, anima assertiva di quelle battaglie. Il 1982 è l’anno in cui fu promulgata la Legge 915, la prima legge organica che regolava lo smaltimento dei rifiuti, prima di questa legge si faceva riferimento al vecchio Testo unico del 1934. “Quando noi abbiamo aiutato la procura nell’individuazione della discarica, non è stato indolore da nessun punto di vista proprio a sancire il rapporto ambivalente tra i cittadini e la fabbrica che dava lavoro, ma stava minando la salute delle persone”. Il disastro ambientale che si andava via via delineando fu segnalato al Ministero della salute dallo stesso Blasetti con una relazione dettagliatissima su come quella fosse solo la punta dell’iceberg e la richiesta del proseguimento delle indagini e la bonifica di quei territori. Una denuncia, nero su bianco, che è restata quasi inascoltata fino al 2005.

“Non è stato indolore da nessun punto di vista proprio a sancire il rapporto ambivalente tra i cittadini e la fabbrica che dava lavoro, ma stava minando la salute delle persone”

Latte di mucca contaminato: lo stato d’emergenza

Nel 2005 è scoppiata la storia del latte di mucca contaminato: in una fattoria di Gavignano un controllo a campione aveva rilevato concentrazioni di beta-esaclorocicloesano (ꞵ-HCH) – un derivato della lavorazione del lindano, pesticida prodotto nella zona proprio dalla BPD – ritrovato in concentrazioni 20 volte superiori al consentito, nei campioni di latte prodotto nella zona. Da lì controlli a tappeto hanno portato alla rilevazione degli stessi residui in latte e formaggio di altre 36 aziende agricole tra i comuni di Segni, Gavignano e Colleferro in provincia di Roma, e di Anagni e Sgurgola in provincia di Frosinone. “Il 7 marzo 2005 con il referto della struttura zooprofilattica sulla presenza del beta-esaclorocicloesano nel latte degli animali è cominciata una cosa che non sapevamo neanche bene come si scrivesse”, ci spiegano Cristina Roffi e Aldo De Felici, Uos Igiene degli allevamenti e delle produzioni zootecniche di Colleferro. “La prima cosa che abbiamo fatto davanti a questo referto che evidenziava una presenza ampiamente sopra i limiti del ꞵ-HCH è quello che si fa quando si fanno gli interventi sui disastri: abbiamo preso la planimetria del territorio e abbiamo visto dove erano le altre aziende zootecniche intorno a quella”, continuano. “E abbiamo cominciato a campionare quelle ovine per il pascolo e quelle bovine perché pur essendo i bovini in stalle il foraggio proveniva da altrove”.

I due veterinari della sezione allevamenti e produzioni zootecniche della Asl di Colleferro hanno lavorato proprio come si fa nelle situazioni di disastro, partendo dalla planimetria del territorio, per ricercare il filo conduttore che univa i vari pezzi. “Abbiamo capito che il veicolo era il fiume: la cosa è cominciata a Gavignano, siamo arrivati da Colleferro a Segni e poi abbiamo comunicato alla Asl confinante, ovvero Frosinone e il distretto di Anagni”. Una volta prelevati i campioni dalle aziende ovine e bovine e ottenuti i risultati dei campionamenti hanno dovuto chiamare gli allevatori, era il venerdì santo, ci racconta Cristina Roffi: “ogni giorno sequestravamo il latte che veniva distrutto. Il costo del latte che veniva distrutto era superiore al costo che gli pagavano il latte di stalla”. Una storia ancora oggi difficile da raccontare per Cristina e Aldo. Parallelamente è stato analizzato il foraggio: “i campioni foraggi sono più complessi. Dalle nostre rilevazioni sono emersi campioni contaminati anche a distanza di chilometri dal fiume, ma tutto riconduceva al foraggio, coltivato in prossimità del fiume”. Sulla base di questi risultati viene ipotizzato un inquinamento ambientale di ampia estensione legato al fiume Sacco che indica la contaminazione delle acque del fiume, utilizzate nelle aziende a scopo irriguo. Nel mese di aprile 2005 il blocco del ritiro del latte ha interessato circa 40 aziende ovi-caprine e le 304 aziende bovine della zona, mentre altre 800 aziende zootecniche furono a rischio di subire la stessa misura.

Eppure la sensazione che si ha entrando in relazione con i protagonisti di questa storia anche dolorosa a Colleferro è di una cittadinanza consapevole e partecipe. Una storia di attivismo nata dalle competenze specifiche di ciascuno – medici, veterinari, operai della fabbrica, etc. – acquisite sul campo. I veterinari, gli epidemiologici, i medici del lavoro, le autorità, nell’incertezza di quello che stava accadendo, sono riusciti a creare un’alleanza basata sulla reciproca fiducia con la cittadinanza, gli allevatori, gli agricoltori, gli operai. Che sia un protocollo di monitoraggio dei livelli di inquinamento del terreno, valutare i livelli di contaminazione negli animali, ricostruire e mappare la catena della contaminazione o mettere in campo gli strumenti della lotta operaia, maturata nel ventennio precedente, per la tutela della salute poco conta: tutto è stato messo a servizio del bene comune.

Cristina Roffi e Aldo De Felici, UOS Igiene degli allevamenti e delle produzioni zootecniche di Colleferro – Fotografia di Claudio Colotti

I risultati delle analisi chimiche condotte su foraggi coltivati in terreni irrigati con acque del fiume o soggetti a esondazione, su terreni ripariali, su sedimenti del fiume, hanno confermato l’ipotesi che i foraggi per l’alimentazione animale fossero stati contaminati attraverso il contatto dei terreni di coltivazione con le acque del fiume e i loro sedimenti. I foraggi coltivati in prossimità del fiume o irrigati con le sue acque sono risultati la fonte principale di contaminazione per le aziende da latte. L’utilizzo dei terreni adiacenti al fiume per la produzione di foraggio è stata vietata e i capi presenti nelle aziende contaminate sono stati abbattuti. “Le produzioni zootecniche sono state salvate, ma da subito, mettendole in sicurezza, facendo i campioni, ma da sempre, togliendo gli animali che erano interessati dalla contaminazione”, continua Aldo. “Gli animali sono stati ripresi, ripopolando le aziende, i terreni non sono stati più usati. Quindi dal punto di vista della sicurezza alimentare, per gli alimenti di origine animale, da subito abbiamo stoppato questa cosa, e negli anni non abbiamo più avuto problemi”. Sicuramente la ricostruzione ha portato degli aspetti positivi come il miglioramento delle razze, i monitoraggi costanti sulla qualità e la sicurezza, delle migliori condizioni negli allevamenti, ma soprattutto ha portato l’istituzione dello stato di emergenza da parte delle autorità regionali e la creazione di un’unità di crisi dedicata presso l’assessorato all’ambiente della Regione Lazio. Il 19 maggio viene dichiarato lo stato di emergenza socio-economico-ambientale nella Valle del Sacco per Colleferro, Segni e Gavignano in provincia di Roma e Paliano, Anagni, Ferentino, Sgurgola, Morolo e Supino in provincia di Frosinone.

Il ꞵ-HCH che ha acceso i riflettori su quei territori è un isomero che può persistere per anni legato a materiale organico nel terreno, nei sedimenti e nel materiale vegetale, oltre a produrre bioaccumulo nei tessuti organici e causare effetti negativi sulla salute per la sua azione neurotossica, nell’uomo e negli animali. È responsabile, inoltre, di effetti negativi sulla sfera endocrina e riproduttiva ed è classificato dalla Iarc come «possibile cancerogeno» fin dal 1987.

Questo ha portato al riconoscimento dello Stato di emergenza e la Valle del Sacco è stata inserita tra i siti di bonifica di interesse nazionale (Sin). In Italia sono diverse le aree geografiche dove è stata accertata una contaminazione del terreno, delle acque superficiali e sotterranee dovute ad attività industriali, produttive o estrattive, a incidenti che hanno causato il rilascio nell’ambiente di inquinanti chimici. Il bacino del fiume Sacco è uno dei 42 Sin identificati come a elevato inquinamento ambientale, zone in cui sono presenti contaminanti ambientali potenzialmente dannosi per la salute umana. Queste aree necessitano interventi di bonifica del suolo, del sottosuolo e/o delle acque superficiali e sotterranee per evitare ulteriori danni ambientali e sanitari.

Dal ꞵ-HCH alla nuova perimetrazione del Sin

L’area della Valle del Sacco, compresa tra i Monti Lepini a ovest e i Monti Ernici a est, fertile e ricca di risorse, resta nel suo insieme caratterizzata in alcuni specifici punti, poi inclusi nel SIN, da diverse criticità ambientali che rappresentano un fattore di rischio per la salute della popolazione residente. La presenza di grandi siti industriali, del termovalorizzatore e dell’autostrada, oltre che l’utilizzo massivo di biomasse (legna e pellet) per il riscaldamento, fanno sì ad esempio che i valori medi annuali delle concentrazioni di sostanze inquinanti siano più elevate della media regionale. Inoltre, presenta una conformazione geografica che ostacola la dispersione degli inquinanti atmosferici. A questo si sommano l’inquinamento del suolo e delle acque dovuto ai rifiuti industriali.

Ma se la contaminazione da ꞵ-HCH e l’esperienza di Colleferro, come ci racconta la storia di attivismo del paese, è stata il motivo che ha permesso di identificare l’emergenza sanitaria nell’area, oggi il Sin Valle del Sacco si estende, oltre ai comuni in provincia di Roma, a molti comuni della provincia di Frosinone che sono attraversati dal fiume Sacco. Del Sin fanno parte le diverse zone industriali che presentano altre problematiche di impatto ambientale e sulla salute, e questo è il principale punto di cambiamento della nuova perimetrazione rispetto al passato. Molti di questi territori sono quelli che abbiamo attraversato assieme a Claudio che li ha fotografati. La nuova perimetrazione dell’area oggetto di bonifica include 19 comuni, di cui 4 della provincia di Roma e 15 della provincia di Frosinone.

Colleferro, Anagni, Ferentino, Frosinone, Ceccano, Ceprano sono i comuni (solo alcuni di quelli inclusi nel Sin) che abbiamo attraversato e sono i luoghi in cui abitano le persone che abbiamo ritratto, raccogliendo le loro storie, ciascuna cassa di risonanza di una specifica percezione del rischio ambientale a cui si sentono esposti in base ai territori che abitano. E che continueremo a raccontare.