×

Tumore del pancreas: i titoli fuorvianti fanno male ai pazienti


L’adenocarcinoma duttale pancreatico (PDAC) – che rappresenta il 95% dei tumori del pancreas – ha purtroppo ancora oggi una prognosi a dir poco infausta. La sopravvivenza netta a 5 anni dalla diagnosi è infatti dell’11% negli uomini e del 12% nelle donne (dati AIOM tratti da “I numeri del cancro 2022”), anche se naturalmente a diversi stadi del tumore alla diagnosi corrispondono diversi tassi di sopravvivenza. Certo, fa ben sperare il fatto che nel 2014 la sopravvivenza media a 5 anni fosse del 6% e che quindi negli ultimi anni si siano registrati significativi passi in avanti dal punto di vista terapeutico e degli outcome clinici, ma i tassi di sopravvivenza attuali rimangono molto scoraggianti: semplificando brutalmente, circa il 90% dei pazienti muore entro 5 anni dalla diagnosi e anche chi supera questo traguardo ancora in vita purtroppo non può ancora dirsi guarito e permane a forte rischio di morte.

I pazienti con PDAC comunque si dividono in due grandi categorie: quelli che alla diagnosi presentano una malattia resecabile, cioè operabile (solo il 15-20% del totale), e quelli in cui un intervento chirurgico non è invece possibile. Negli ultimi dieci anni è emersa una terza categoria, quella dei “quasi resecabili” o borderline (BR-PDAC), cioè quel sottogruppo di pazienti che presentano un tumore sì localmente avanzato, ma ancora con caratteristiche che lo rendono tecnicamente resecabile. Si tratta di un’area grigia che non è ancora esattamente definita, tanto che differenti Società Scientifiche e Linee-Guida ne danno spesso definizioni significativamente diverse: American Hepato-Pancreato-Biliary Association (AHPBA), Society of Surgical Oncology (SSO), Society for Surgery of the Alimentary Tract (SSAT), International Study Group of Pancreatic Surgery (ISGPS), National Comprehensive Cancer Network (NCCN) tra le altre.

Spiega Ulla Kleiber dell’University of Heidelberg: “In caso di BR-PDAC in cui è presente soltanto invasione venosa, la resezione chirurgica è generalmente raccomandata in pazienti in buona forma fisica e in assenza di metastasi ai linfonodi. Al contrario in caso di invasione arteriosa il trattamento d’elezione è la terapia neoadiuvante, cioè la terapia farmacologica che ha lo scopo di ridurre le dimensioni del tumore primitivo per rendere operabili tumori che non sono operabili e per ridurre l’estensione dell’intervento. Lo stesso in caso di elevati livelli di CA 19-, coinvolgimento dei linfonodi o stato fisico del paziente compromesso. Nel caso di PDAC localmente avanzato la terapia neoadiuvante rappresenta lo standard terapeutico perché ci garantisce una buona quota di resezioni chirurgiche post-terapia”.

Non è una questione di lana caprina: questa “conversione” del tumore all’operabilità con terapia neoadiuvante offre al paziente la chance di un aumento della sopravvivenza in una situazione che invece prevederebbe solo terapie palliative. Quanto “pesa” questa chance? Un recente studio pubblicato su “Annals of Surgical Oncology” ha riscontrato nei pazienti operati nell’arco di sette anni presso il Digestive Disease Institute – Virginia Mason Medical Center di Seattle un tasso di sopravvivenza a 5 anni del 30,7%, senza differenze riscontrate nei pattern di recidiva tra PDAC resecabile e BR-PDAC. Una revisione sistematica pubblicata dalla rivista “Pancreatology” ha preso invece in esame 18 studi sul tema concludendo che in media la sopravvivenza tra i pazienti con BR-PDAC sottoposti a terapia neoadiuvante + intervento chirurgico è di 25,9 mesi contro gli 11,9 mesi dei pazienti non operati.

La resezione chirurgica del tumore al pancreas quindi può portare a una differenza di sopravvivenza molto significativa (in media poco più di due anni contro circa un anno), anche se purtroppo – come è evidente a chiunque – tra questa prospettiva e la guarigione c’è ancora tutta la differenza del mondo. È quindi un comportamento deontologicamente molto deprecabile fornire informazioni fuorvianti al pubblico, ai pazienti e ai loro familiari su di un tema così sensibile e importante.

Recentemente sono apparsi sulla stampa numerosi articoli riguardanti una innovativa tecnica di radioterapia neoadiuvante: in pratica nel pancreas del paziente con BR-PDAC viene inserito in laparoscopia OncoSil™, un dispositivo (prodotto dall’azienda omonima) che emette microparticelle marcate con Fosforo-32 allo scopo di ridurre la massa tumorale e rendere il paziente operabile. Alcuni dati incoraggianti presentati al World Congress on Gastrointestinal Cancer 2022 dell’European Society of Oncology (ESMO) e i numeri comunicati alla stampa in occasione del primo impianto effettuato in Italia, presso la UOC Medicina Nucleare dell’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma, parlano di 33% dei pazienti sottoposti a questa procedura tornati ad essere operabili, con rischio di morte ridotto del 20%.

Numeri significativi, certo, soprattutto in un setting a così severa prognosi, ma che vanno riportati all’epidemiologia che abbiamo descritto sopra: ovvero un terzo circa dei pazienti sottoposti a questa innovativa procedura neoadiuvante (a loro volta appartenenti come abbiamo visto a una minoranza dei pazienti con tumore del pancreas) riesce grazie a questa ad accedere alla resezione chirurgica del pancreas, che garantisce in media un certo aumento della sopravvivenza.

Tutto qua. Non è poco, per carità, ma questi dati non consentono a nessuno di fornire informazioni troppo enfatiche o distorte e ingenerare false speranze in chi sta vivendo un’esperienza drammatica e angosciante. Cosa puntualmente avvenuta, con testate come “Today” o “Fanpage” che parlano di “paziente salvo” o “salvato”, un messaggio che il grande pubblico ovviamente associa con la guarigione definitiva dal tumore, non con un possibile (nemmeno certo) aumento della sopravvivenza dell’ordine di mesi.

Questi articoli sono stati naturalmente postati sui social network e letti da migliaia di pazienti e loro familiari, che hanno tempestato di chiamate e mail l’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma, ricevendo quasi sempre risposte deludenti perché come abbiamo visto la percentuale di pazienti con PDAC resecabile o con BR-PDAC è comunque minoritaria.

Perché giocare con il dolore altrui? Una spregiudicata strategia per fare clickbait? Oppure si tratta “soltanto” di trascuratezza (eufemismo) nel comprendere e riportare i dati forniti da azienda e clinici? Entrambe le cose sarebbero da condannare fermamente, ma propendiamo per la prima ipotesi perché altre testate (ad esempio “la Repubblica” e “La Stampa”) hanno riportato la notizia senza inserire nei titoli messaggi enfatici e fuorvianti.