“Spero che questo dibattito dia speranza ad altri pazienti malati di tumore come me, cosicché possiamo vivere con il cancro e non morire a causa di esso, tutti noi, più a lungo”. Tessa Jowell si siede, con i fogli del discorso ancora tra le mani, riprende posto tra i banchi dei laburisti, il suo partito di una vita. Dopo un’incertezza che dura il breve spazio di accorgersene, parte l’applauso di tutti i parlamentari per un tributo alla collega “ferita” che sembra più affettuoso che formale. Tessa aspetta che l’applauso si esaurisca (servirà un minuto buono), poi aggiunge con una voce ferma che tradisce poco la commozione che l’ha preceduta: “Questo è per tutti noi, e quindi vi ringrazio molto”.
Settantenne, membro della House of Lords (Baronessa dal 2015), ministro negli ultimi due governi laburisti inglesi, quello di Tony Blair e quello di Gordon Brown, Tessa Jowell ha il pedigree di un politico di razza e un impegno da sbrigare quando entra in taxi il 24 maggio 2017. Un attacco violento di convulsioni, la corsa in ospedale, due giorni e la sentenza: glioblastoma multiforme (GMB), un tumore cerebrale particolarmente aggressivo, difficile da curare, che lascia poche probabilità di sopravvivenza. Una settimana dopo, l’intervento chirurgico per rimuovere il tumore al National Hospital in Queens Square.
Una storia già vista tante altre volte. Il personaggio pubblico di turno si ammala, sperimenta “il prima e il dopo” la diagnosi di cancro, decide di fare outing, si fa paladino della causa di tutti i malati come lui, se va bene guarisce pure. Ma Tessa Jowell non è un’attrice, una cantante o una presentatrice TV. È un politico inglese di primo piano, siede alla House of Lords, si occupa di comunicazione da sempre (ex ministro per le olimpiadi, ex segretario di stato alla cultura, media e sport). Non vuole limitarsi a testimoniare la sua esperienza di malattia mostrandosi al mondo, non ha neanche l’età per apparire un caso umano, così decide di fare quello che sa fare meglio, un discorso politico, anzi vari discorsi politici, una campagna di comunicazione in piena regola che ha il suo apice nello speech di fronte alla camera dei Lord il 25 gennaio scorso.
Quel giorno, Tessa Jowell si alza e parla con difficoltà, il suo inglese impeccabilmente scandito non riesce a nascondere il peso dell’emozione e, forse, dei danni della malattia e delle terapie. Prima i dati, pochi ma eloquenti, poi le proposte. Il National Health System (il sistema sanitario nazionale britannico) stanzia soltanto il 2 per cento dei fondi della ricerca per i tumori cerebrali e la cura del cancro è una sfida complessa, ammette la Jowell. La sua speranza però non è genericamente affidata alla crescita dei finanziamenti per la ricerca e al miglioramento delle terapie che, almeno per i tumori al cervello, sono le stesse da cinquant’anni a questa parte. La speranza ha un nome, un cognome e un indirizzo fiscale: si tratta dell’ECI, ovvero Eliminate Cancer Initiative, un programma dalla Minderoo Foundation dei coniugi filantropi australiani Andrew e Nicola Forrest, avviato curiosamente proprio nello stesso mese in cui Tessa ha ricevuto la diagnosi di tumore.
In sostanza si tratta di un fondo di 75 milioni di dollari australiani al servizio di un piano globale di lotta al cancro. Premiare la collaborazione, accelerare e promuovere la ricerca e migliorare la prevenzione, la diagnosi e il trattamento dei malati, il tutto secondo un’impostazione che garantisce che il paziente sia in ogni momento al centro delle iniziative. In Australia è già in funzione e dovrebbe presto sbarcare in UK, negli Stati Uniti e in Cina.
Ogni paziente ha diritto a una comunità che lo sostenga e se ne prenda cura
Il presupposto è che nessuna nazione al mondo può “fare da sé” nelle cure oncologiche e che il punto di vista del malato deve guidare le politiche di ricerca e sperimentazione. Ecco fatto il programma. Una piattaforma cloud proprietaria in cui i medici possono condividere approfondimenti e dati. Basta trial che si occupano di testare un farmaco alla volta e richiedono anni per essere completati, tra l’altro a costi elevatissimi, e via libera agli adaptive trial che accelerano e migliorano il processo di sperimentazione perché permettono di testare più farmaci alla volta con la prospettiva anche di cospicui risparmi. La scienza migliore, in qualsiasi posto del mondo sia sviluppata, deve poter essere utilizzata e arrivare ai pazienti che ne hanno bisogno, ovunque si trovino. Ogni paziente ha diritto a una comunità che lo sostenga e se ne prenda cura, “con gentilezza e senso pratico”, lasciando ai medici il quadro generale: anche i carer quindi vanno sostenuti dal sistema sanitario.
Ma il senso pratico richiesto ai carer si specchia nel senso pratico della Jowell politico che paventa che un approccio così promettente ma altrettanto ambizioso possa finire nel calderone delle sfide impossibili, quelle sostenute a parole, con finto entusiasmo, da qualsiasi interlocutore politico a qualsiasi latitudine, nella convinzione che le ambizioni resteranno tali e alla fine non se ne farà niente. È a questo punto che il discorso vira verso toni più suggestivi, inspiring, che richiamano la legge morale, l’afflato collettivo, il senso di comunità, la condivisione, perché Tessa sa che deve usare tutti i tasti a disposizione.
Cita il noli timere (“non aver paura”) che il grande poeta irlandese Seamus Heaney ha digitato nell’ultimo SMS indirizzato alla moglie prima di morire. Poi fa riferimento ai tanti malati di cancro che collaborano e si sostengono a vicenda, una comunità di amore e determinazione in cui si ritrovano ogni giorno, chiedendo che dottori e sistemi sanitari facciano altrettanto, lavorando insieme e imparando gli uni dagli altri. E chiude con “quello che dà significato alla vita non è soltanto come la si è vissuta ma come ci si avvicina alla fine”, un quasi epilogo (in realtà l’ultimissima frase che pronuncia è quella apre questo commento) commuovente ma terribilmente concreto che si rivolge a tutti, parlamentari, spettatori televisivi, pazienti, carer, a un livello dialettico degno del prestigio (seppure un po’ appannato) dell’istituzione a cui appartiene.