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Photo by Garry Knight / CC BY

Dormire per strada durante una pandemia


In Italia si stima vi siano tra le 49.000 e le 52.000 persone senza dimora, che vivono in strada o in alloggi precari e sovraffollati. Tra loro, molti sono uomini (l’85,7 per cento), poco più della metà stranieri (58,5 per cento), sui 45 anni e spesso con più patologie croniche concomitanti. Si concentrano nelle grandi città, a Roma e Milano, hanno difficoltà di accesso ai servizi sanitari, spesso non possono usufruire dei servizi igienici essenziali. Con queste premesse, appare subito evidente che l’emergenza sanitaria provocata dalla Covid-19 ha reso queste persone estremamente vulnerabili.

L’epidemia, infatti, tra le altre cose, ha accentuato le forti disparità e il divario economico e sociale tra chi può permettersi di mangiare, restare in casa, curarsi, avere un supporto psicologico, pagare l’affitto e chi invece non ha la possibilità di permettersi tutto ciò.

Tutti i servizi che di solito ruotano intorno alle persone senza fissa dimora in questo momento si sono un po’ trasformati, penso per esempio alla distribuzione del cibo: non tutte le associazioni che si occupavano di questo, come della gestione delle mense e delle docce, sono al momento attive. Un ragazzo che abbiamo recentemente incontrato durante l’orientamento ci ha detto: ‘Guarda che adesso il mio coronavirus sta sulla pancia, adesso dove devo andare per mangiare?’ A questo si aggiunge un altro aspetto, un’altra persona incontrata ci ha fatto notare che ‘mi dicono di lavarmi le mani frequentemente, ma io vivo per strada, che raccomandazione mi stai dando?’”, racconta a Forward Giulia Chiacchella, medico di Medici per i Diritti Umani (Medu).

Nonostante questo, però, l’Italia continua ad accusare un preoccupante ritardo nell’implementazione di strategie per proteggere le persone senza dimora dagli effetti potenzialmente devastanti causati dalla Covid-19. In parte i motivi possono essere riconducibili anche al carattere decentrato del Sistema Sanitario Nazionale (Ssn) che affida la gestione della salute alle amministrazioni regionali, favorendo la presenza di strategie sanitarie disomogenee nei territori. Solo la Regione Piemonte, infatti, ha emanato una direttiva per indicare le misure da adottare a protezione delle persone senza dimora.

Per supplire ai ritardi di un piano efficace da parte del Governo e delle amministrazioni sanitarie, sul territorio vi sono diverse realtà che operano per tutelare i diritti di queste persone, degli ultimi, di chi non ha voce. “La situazione è molto critica”, racconta a Forward Alberto Barbieri, medico e coordinatore generale di Medu. “A Roma, ad esempio, si stima siano circa 8.000 le persone che vivono in strada, e se consideriamo anche le persone che vivono in insediamenti precari, nelle cosiddette baraccopoli, il numero raddoppia. Roma detiene il triste primato in Italia per numero di homeless, complessivamente su tutto il territorio nazionale sono circa 50 mila persone. Sono persone già di per sé fragili e vulnerabili e ovviamente in questa situazione epidemica, la loro fragilità si acuisce ulteriormente. A questo si aggiunge la mancanza di linee di azione specifiche impostate dalle autorità sanitarie per contenere il virus in questi contesti, dove ovviamente i rischi di diffusione sono più alti”.

Mi dicono di lavarmi le mani frequentemente, ma io vivo per strada, che raccomandazione mi stai dando?

Medu, infatti, Ong medico-umanitaria indipendente, sta attualmente implementando un intervento di contenimento dell’epidemia in tre regioni: Toscana (area metropolitana di Firenze, Prato e Pistoia), Lazio (area metropolitana di Roma) e Calabria (Piana di Gioia Tauro, negli insediamenti informali di rifugiati e migranti impiegati in agricoltura). Nessuna di queste regioni ha ancora sviluppato un piano alloggiativo straordinario per la popolazione senza dimora e le attività di informazione, screening e sorveglianza attiva sembrano essere più affidate all’iniziativa di organizzazioni del privato sociale che operano nel settore che a strategie globali dei sistemi sanitari regionali.

Abbiamo dovuto riorganizzare totalmente le nostre attività, quelle ambulatoriali ordinarie le abbiamo sospese, lasciando aperti solo i canali per le emergenze. Inoltre, abbiamo dovuto impostare i nostri interventi nell’ottica del contenimento del coronavirus presso queste popolazioni, attivando principalmente due linee di azione. Una è quella dei triage telefonici e di un supporto psicologico a distanza. (…) Un’altra è quella che vede realizzarsi sul terreno le attività di screening e di prevenzione. Medu, tramite le équipe mobili, arriva alle persone che vivono negli insediamenti, a partire dalle stazioni ferroviarie di Roma Termini e Tiburtina. Qui, prima di tutto, si porta avanti un’azione volta a informare le persone, si lavora sulla prevenzione del coronavirus, a partire da cos’è l’epidemia e in che modo contrastarla, fino ai comportamenti che bisogna adottare per proteggersi. Inoltre, distribuiamo i dispositivi di protezione, fondamentali per limitare la diffusione del contagio. In questi contesti pensiamo alle persone che vivono sulla strada, senza nessuna possibilità di adottare quelle misure di distanziamento che una persona potrebbe adottare se avesse una casa”, spiega Barbieri.

Vi sono poi, tra le persone senza dimora, gruppi che per la loro specifica vulnerabilità meritano una particolare attenzione. Sono le persone con età superiore ai 50 anni e con patologie croniche, le persone con disagio psichico, ma anche i migranti e i rifugiati. Racconta a Senti chi parla Francesco Portoghese, di A Buon Diritto, che “la Questura – Ufficio Immigrazione di Roma è ancora chiusa nonostante le indicazioni ministeriali fossero di ricevere almeno le domande d’asilo. Questo non è avvenuto. I cancelli della Questura sono chiusi da settimane e non entra nessuno. Gli appuntamenti calendarizzati per questo periodo sono stati cancellati senza informare gli interessati e senza comunicare nuove date, alimentando la confusione e l’incertezza tra richiedenti asilo e cittadini stranieri, oltreché tra gli operatori e le associazioni. Il blocco delle domande di asilo comporta, tra le altre cose, l’impossibilità di essere accolti nel circuito d’accoglienza per richiedenti protezione internazionale, costringendo le persone a dimorare per strada o a cercare soluzioni di fortuna.

Sono persone già di per sé fragili e vulnerabili e ovviamente in questa situazione epidemica, la loro fragilità si acuisce ulteriormente.

A Buon Diritto è tra le associazioni che in questo momento stanno promuovendo e aderendo a una serie di iniziative volte a garantire a chi ne ha bisogno l’accesso agli sportelli legali e informativi, ai servizi sanitari, al cibo. Grazie allo sportello legale, seppur telefonico nel periodo della pandemia, hanno continuato e continuano a offrire consulenza e informazioni sui documenti e sui permessi di soggiorno ai cittadini stranieri, richiedenti asilo e rifugiati. “La situazione a Roma è disastrosa”, conferma Valentina Calderone, direttrice di A Buon Diritto, “perché non è stato approntato nessun tipo di servizio specifico per persone senza fissa dimora e gli inserimenti nei centri di accoglienza sono bloccati da più di un mese. Sappiamo poi di tutti i problemi creati dalla richiesta dei bonus spesa, sia per la modalità di presentazione, sia per l’erogazione, su cui il Comune di Roma è tremendamente in ritardo“.

Spesso ci si dimentica, inoltre, dello stress che stanno vivendo non solo gli operatori sanitari che lavorano in ospedale, ma anche i volontari, i medici e gli infermieri che portano assistenza alle persone in strada. “È una situazione assolutamente inedita che sta mettendo a dura prova non solo la popolazione in generale ma i professionisti che lavorano nell’ambito sanitario, il livello di stress è molto alto. Chi si occupa di salute vive anche una certa frustrazione e alcune difficoltà nel mettere in atto gli interventi programmati, ad esempio nel fornire e integrare i dispositivi, i detergenti, il cui approvvigionamento è molto limitato. Ritengo necessario che in questo momento il supporto psicologico, oltre che arrivare alla popolazione, debba essere rivolto anche agli operatori sanitari”, conclude Barbieri.

E anche Giulia Chiacchella è d’accordo: “Viviamo la situazione con un senso di impotenza. Vorremmo davvero riprendere l’attività sul terreno in supporto all’azienda sanitaria per contenere l’epidemia dove le persone non riescono a raggiungere autonomamente il sistema sanitario o dove esso non arriva. Ma ciò che noi operatori sentiamo maggiormente è l’importanza di poter partecipare all’azione di contenimento, per il bene dei singoli pazienti, per la salute collettiva e per il supporto all’azienda sanitaria”.