Partiamo dalla risposta: sono 98,78 i miliardi di euro che l’Italia risparmierebbe se gli uomini smettessero di comportarsi da uomini. Già la vedo la levata di scudi di quelli che si sentono minacciati nella loro mascolinità. Proprio per questo, andiamo avanti. Sono uomini l’85,1% delle persone condannate dalla giustizia, il 92% degli imputati per omicidio, il 98,7% degli autori di stupri, l’83,1% degli autori di incidenti stradali mortali, l’87,5% degli imputati per rissa, il 91,7% degli evasori fiscali, il 93,4% degli spacciatori e il 95,7% della popolazione carceraria (dati Istat).
“Comportati da uomo”
“Comportati da uomo” è una di quelle frasi che avremo sentito dire (e se siete uomini, ve lo sarete sentito dire) infinite volte nel corso della nostra vita. “Comportati da uomo” implica la nozione di “virilità”, che secondo quando riportato dall’Enciclopedia Treccani è: “La qualità propria dell’uomo forte, sicuro di sé e risoluto, coraggioso, che si manifesta nelle sue azioni”. Una norma a cui gli uomini sono esposti dall’educazione fin da bambini e che si porta dietro 98 miliardi di euro di costi. Perché? Perché la virilità, intesa appunto come capacità di sfidare il pericolo, coraggio nell’affrontare un avversario, forza fisica, attitudine al comando, attitudine ad assumersi dei rischi, sopraffazione del più debole, è proprio ciò che sta alla base della maggior parte dei comportamenti maschili delinquenziali e antisociali e che finiscono per mettere gli uomini stessi, e soprattutto gli altri, a rischio. È ineluttabile che sia così? La violenza e il comportamento antisociale di uomini e ragazzi è inscindibile dalla natura biologica del sesso maschile? O piuttosto è il risultato di valori virilisti a cui gli uomini si devono uniformare fin dalla più tenera età e per il resto della loro vita?
Nell’educazione di un bambino maschio rifiutiamo l’idea di dargli un bambolotto per insegnargli il valore del prendersi cura degli altri, rifiutiamo di insegnargli a rimanere calmo e contenersi, ad essere paziente, a essere sensibile perché abbiamo paura di compromettere la sua virilità. Eppure, questi valori (che non abbiamo nessun problema a imporre a una bambina) sono proprio quelli su cui si basa una società di diritto. In sostanza, cresciamo i bambini in modo che siano adulti disadattati per il resto della loro vita. Persino i comportamenti ecologici e più sostenibili (guidare un’auto elettrica, usare una borsa riutilizzabile, comprare i prodotti biologici, mangiare meno carne) o quelli di buon senso (moderare la velocità in macchina) sono visti come poco “virili”.
Tutto questo (e molto altro, soprattutto l’impatto economico della virilità) ce lo spiega un libro scritto da Ginevra Bersani Franceschetti e Lucile Peytavin e pubblicato da Il Pensiero Scientifico Editore: “Il costo della virilità”.
Lucile Peytavin, storica dell’economia specializzata in questioni di genere, decide di scrivere “Il costo della virilità” quando scopre il dato statistico relativo alla popolazione carceraria maschile francese (96%, dato simile all’Italia) e quando, sentendo delle sirene della polizia mentre camminava per strada, pensa che molto probabilmente il motivo per cui una squadra della polizia era impegnata a intervenire aveva a che fare con uomini. La risorsa di un servizio pubblico, in questo caso di pubblica sicurezza, pagato da tutti i cittadini di un paese, veniva impiegata per risolvere una situazione creata da maschi. In quanti altri casi (servizi sanitari, servizi giudiziari, servizi di soccorso) stava succedendo lo stesso? Il libro viene pubblicato in Francia. Ginevra Bersani Franceschetti, economista, il giorno dopo averlo letto, entra in contatto con l’autrice per calcolare il costo della virilità anche in Italia e pubblicare un libro che non fosse solo una traduzione dell’originale: invita Lucile Peytavin in video call e intitola l’incontro: “Cambiamo il mondo?”.
No, il testosterone non c’entra. E neanche l’uomo delle caverne
Quella dell’attribuzione di specifici compiti (la caccia all’uomo, la cura della prole alla donna) fin dai tempi del Paleolitico (che ricordiamo coprire un arco temporale che va dai 2,5 milioni di anni fa ai 12.000 anni fa) è il frutto dell’applicazione dell’ideologia sociale dell’inizio del Ventesimo secolo al ritrovamento dei reperti archeologici, interpretazioni arbitrarie che hanno creato l’immagine stereotipata dell’uomo delle caverne, oltre a comportare veri e propri errori di attribuzione: ad esempio, scheletri robusti e adornati con armi e conchiglie venivano automaticamente attributi al sesso maschile nella convinzione che solo gli uomini potessero avere sepolture con simboli di ricchezza e potere (vedi il caso dell’Uomo di Mentone, poi Donna del Caviglione). La verità sembrerebbe essere un’altra: durante il Paleolitico non solo la caccia era un’attività condivisa, ma si trattava di un’attività minore. La principale fonte di alimentazione era infatti la raccolta di bacche, noci, vegetali e la caccia di piccoli animali, e le donne percorrevano diverse decine di chilometri al giorno a tale scopo, ben lontane dalla “casa caverna”. Insomma quello dell’uomo che si dedicava alla caccia e della donna che rimaneva nella caverna a prendersi cura della prole nel Paleolitico è un vero e proprio stereotipo frutto della proiezione di modelli di organizzazione sociale contemporanei su popolazioni vissute milioni di anni fa. Stereotipi che sono serviti spesso da giustificazione “naturale” della distribuzione dei ruoli maschili e femminile: se succedeva così in un’epoca pre-culturale voleva dire che siamo portati naturalmente a un certo tipo di ruolo. Un tentativo di legittimare un fattore culturale con un presunto fattore biologico. In realtà, i ruoli erano molto più egualitari nel Paleolitico, ed è solo alla fine del Neolitico (8000 a.C. – 3500 a.C.), con l’avvento delle armi metalliche che permettono alla forza maschile di imporsi concretamente, che il monopolio nell’ambito della caccia grossa e del combattimento diventa maschile e cominciano a emergere le prime diseguaglianze sociali tra uomini e donne: sulle ossa degli scheletri femminili cominciano a ritrovarsi segni di violenza, privazioni e denutrizione, e cominciano a ridursi le dimensioni stesse degli scheletri. La minore altezza delle donne comincia a essere un dimorfismo sessuale pregnante. Sgombrato il campo da una pseudo-prova, le autrici passano ad analizzare un’altra giustificazione al comportamento maggiormente violento degli uomini: il ruolo del testosterone, ormone simbolo della virilità, prodotto però anche dalle ovaie e dalle ghiandole surrenali femminili, sebbene in misura molto minore. A oggi però nessuno studio è riuscito a dimostrare che esista un nesso causale tra testosterone e aggressività. Quindi, ancora una volta, non c’è alcuna giustificazione biologica all’aggressività maschile. Proviamoci ancora, il cervello: deve essere tutto nella differenza tra il cervello maschile e quello femminile, la violenza maschile potrebbe avere cause neurologiche. Se però pensiamo che quando nasciamo solo il 10% delle nostre connessioni cerebrali è completo, significa che il restante 90% si completerà attraverso l’apprendimento e in base a cosa siamo esposti (ambiente familiare, educazione, stimoli culturali, emozioni). Capacità e comportamenti non sono innati, sono acquisiti. Non ci resta che arrenderci alla sola ipotesi plausibile rimasta: il maggior ricorso alla violenza e i più frequenti comportamenti antisociali dell’uomo rispetto alla donna sono frutto di un modello educativo e di una influenza culturale specifica. A questo punto, come si cambiano le cose?
Come si cambia il mondo?
La politica e il dibattito pubblico sono sostanzialmente ciechi davanti a questa sovra rappresentazione della popolazione maschile all’interno dei comportamenti antisociali. Non solo, come abbiamo visto, il fatto viene tollerato in nome della presunta “natura” turbolenta e violenta degli uomini, ma le politiche di sicurezza continuano a non voler leggere il sesso maschile come determinante e quindi come target per programmi di educazione. Ad esempio, le campagne contro gli incidenti stradali sono “neutre”, si rivolgono cioè all’intera popolazione italiana, o a quella più giovane che consuma alcol, sebbene, come abbiamo visto, l’83,1% degli autori degli indicenti stradali mortali è di sesso maschile: non sarebbe quindi più utile pensare a campagne focalizzate e mirate agli uomini, o a giovani maschi che bevono? Se biologico non significa ineluttabile, ciò vuol dire che uomini educati a valori meno “maschili” (il bambino è spronato ad essere forte, coraggioso, a non lasciarsi sopraffare, a non cedere alla emotività, e la sua intemperanza comportamentale è tollerata se non ben accolta in nome appunto della caratteristica della volitività) sia nell’ambito familiare che in quello sportivo, scolastico, ludico, sarà un adulto più rispettoso (meno irascibile), più collaborante (meno autoritario), più sensibile (meno violento), più empatico (meno indifferente). Tutte caratteristiche che ci augureremo di trovare in una società civile, nel mondo ideale, e che fanno parte dell’educazione femminile. Allora perché non smettiamo di pretendere dai bambini il contrario?