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Gli psicologi alla prova del post-Covid-19


Cosa si chiedeva agli psicologi durante il lockdown? Abbiamo bisogno di loro per gestire questa seconda fase? Basterà la psicologa sociale Elisabetta Camussi inserita nella task force di Conte? Quale ruolo potrà avere la psicologia nell’auspicabile ricostruzione della medicina territoriale dopo il disastro della pandemia? Ne abbiamo parlato con Viviana Langher, professoressa del Dipartimento di Psicologia Clinica e Dinamica di Sapienza, una chiacchierata informale per sgombrare un po’ il campo dai luoghi comuni che hanno inquinato il discorso pubblico negli ultimi tempi e provare a immaginare scenari nuovi.

Un territorio sconosciuto
Gli psicologi danno il meglio dal punto di vista professionale quando possono pensarli i processi”. Ma l’epidemia del nuovo coronavirus ci ha scaraventato tutti, psicologi compresi, in un territorio del tutto nuovo, una situazione talmente inedita da rendere i processi difficilmente leggibili. “Non abbiamo idea di quello che stiamo attraversando come comunità”.

Un quadro senza paradigmi e senza ricerca scientifica a cui fare riferimento. “Ci sono studi precedenti, modelli per situazioni che potrebbero essere avvicinate per analogia a quella che stiamo vivendo, ma non è detto che si adattino davvero… perché non lo sappiamo”. “Non lo so…”, “Non lo sappiamo”, … lo ripete spesso Langher, come se fosse un mantra da disseminare nel discorso sperando che in questo modo attecchisca meglio.

Il momento degli psicologi?
All’inizio l’enfasi era soprattutto sulla funzione dei medici e dei sanitari a cui tutta la collettività aveva attribuito una funzione salvifica”. Poi il Sars-Cov2 ha cominciato a mordere e anche medici e infermieri hanno finito per mostrare inevitabilmente la loro vulnerabilità. È in quel momento che la comunità ha iniziato a reclamare l’intervento degli psicologi per aiutare a sopportare le conseguenze negative (immaginate, percepite, probabilmente reali) dell’esplosione del contagio, ma sembrava più un “atto di disperazione che un calcolo”.

Molti psicologi si sono offerti per dare un sostegno psicologico a distanza utilizzando le nuove tecnologie (un sforzo sostenuto anche dal Cnop, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi). Eppure a questa offerta, allo slancio di tanti professionisti, non è corrisposto un aumento rilevante della richiesta nell’immediato da parte delle persone. “La disperazione c’è stata ma la gestione è rimasta privata, soffocata dalle mura domestiche, come chissà quanti altri fenomeni. Fermo restando il fatto che non è il malessere o il disagio la dimensione che avvicina con più certezza i clienti agli psicologi, non è mai stato questo”, puntualizza Langher.

Una rivoluzione dei significati comunicativi
Altri colleghi si sono attivati per fare ricerca che probabilmente è la prima cosa da fare”. La ricerca psicologica è stata in effetti molto sullo sfondo in questa prima fase dell’emergenza coronavirus, soprattutto perché, per definizione, ha bisogno di accumulare dati e i suoi tempi sono poco compatibili con la richiesta di risposte immediate.

La grande chiamata degli psicologi alla disponibilità verso la comunità ha preso soprattutto la forma della chiamata individuale. Ma è in atto una rivoluzione dei significati comunicativi, della gestione della vita sociale. Una profonda trasformazione della relazione con i corpi degli altri. Come faranno le persone a stare in relazione senza lo scambio fisico e l’analisi fine dello stato fisico dell’altro?  Il corpo dell’altro è diventato nemico, può nascondere segreti minacciosissimi e questo non finirà con la fine dell’emergenza. L’altra faccia della medaglia è il passaggio sulle relazioni online. C’è chi sostiene che siano soddisfacenti e funzionali, chi invece sostiene che non è detto che corrispondano esattamente alle relazioni che prevedono la corporeità materiale dell’altro”. Forse, come sta già in parte accadendo, quando l’emergenza rientrerà del tutto, scopriremo che questi fenomeni di trasformazione saranno stati transitori, ma finché dura bisognerà aiutare le persone a ritrovare un po’ di piacere nella relazione.

È in atto una rivoluzione dei significati comunicativi, della gestione della vita sociale. Una profonda trasformazione della relazione con i corpi degli altri.

La comunità sarà il nuovo centro
Nel pieno dell’emergenza contagio un gruppo di medici dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, una delle città più colpite dal contagio, scrive e pubblica su Catalyst Nejm un articolo che riflette sul modo più giusto di affrontare la situazione se un’epidemia si dovesse verificare di nuovo. Viviana Langher ne era rimasta fortemente impressionata, non tanto perché l’articolo sottolineava impietosamente i problemi organizzativi alla base del collasso della sanità lombarda, quanto per la prospettiva di un nuovo tipo di assistenza centrata sulla comunità e non più soltanto sul paziente. Quell’assistenza territoriale venuta tragicamente a mancare mentre il contagio si diffondeva e la gestione era totalmente appaltata ai grandi ospedali e ai reparti covid allestiti per l’occasione.

Langher cita gli esempi virtuosi che pure non sono mancati anche in Lombardia: le équipe superspecializzate del piacentino per esempio, in grado di rispondere immediatamente alle richieste del territorio. Sembra diventata ormai improcrastinabile una riforma in questo senso dell’organizzazione del nostro sistema sanitario per non ripetere gli errori del passato facendoci trovare di nuovo tragicamente impreparati. E questa nuova medicina centrata sulla comunità troverebbe validi alleati proprio negli psicologi.

Da una parte potrebbero affiancare per esempio i medici di base per migliorare la compliance degli interventi e per facilitare la trasmissione medico-paziente e viceversa; dall’altra il loro contributo si rivelerebbe prezioso in una fase in cui l’immagine persecutoria della sanità – che conculca le libertà, rintraccia e segrega le persone, traccia, separa e lascia morire – andrebbe sostituita con quella di un’organizzazione più flessibile, ramificata, in grado di leggere i contesti, di neutralizzare e di bonificare il senso di colpa proprio e dei cittadini di cui si occupa.

L’occasione di cambiare che offre questa fase è davvero irrinunciabile. Se i buoni propositi dovessero restare sulla carta, potrebbe non esserci una seconda possibilità…