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La povertà non deve essere un destino


“Sono stata messa in un rifugio per senzatetto, per donne che hanno sperimentato violenza domestica o sono state coinvolte nel traffico di esseri umani (…) Sono mentalmente e fisicamente disabile eppure in questi posti non ci sono cure o compassione, c’è qualcuno in questa stanza che mi può aiutare a far sentire la mia voce?”.

La peculiarità di una simile richiesta non è il contenuto della domanda, tristemente affine a molte, troppe, storie che leggiamo spesso sulle pagine dei quotidiani, quanto il contesto in cui è stato formulata: un seminario universitario, tenuto da Sir Michel Marmot – docente di Epidemiologia e salute pubblica presso lo University College London – al Berkeley Way West, in cui discute della Social Justice and Health Equity (qui il link al seminario).

Ma cosa ha portato una giovane donna a fare un tale appello in un’aula universitaria?

Come possiamo già intuire dal titolo del seminario, “Giustizia sociale ed equità di salute”, le tematiche trattate devono aver scosso molto la spettatrice, vittima lei stessa invece di condizioni di salute influenzate da ingiustizie sociali. Eppure una cosa per cui ringrazia Marmot è: “Sono qui perché sono parte della popolazione vulnerabile di cui ha parlato all’inizio e mi sento empowered ora che so perché ne faccio parte”.

Il seminario di Marmot tratta sì della giustizia sociale e dell’equità di salute, ma il fulcro per poter raggiungere tali obiettivi è innanzitutto rendere le persone più consapevoli della loro vita e della loro possibilità di scelta, così che possano raggiungere la miglior espressione di sé stessi. Nascere in povertà spesso condiziona il proprio modo di vedere il mondo, riducendo di gran lunga il ventaglio di scelte che si pensa di poter fare, per cui si ha un minor controllo sulla propria vita.

Nel 2008 la Commissione sui determinanti sociali della salute (Commission on social determinants of health – CSDH), presieduta dal ricercatore inglese, ha pubblicato il rapporto “Closing the gap in a Generation”. Il governo britannico, sulla base dei risultati ottenuti, ha successivamente incaricato lo stesso Marmot di condurre una revisione dei determinanti sociali e delle disuguaglianze di salute specifica per il Regno Unito: “Fair society, healthy lives – the Marmot Review”.

Il risultato del lavoro delle due commissioni è ciò di cui discuteva Marmot al seminario: i determinanti sociali sono fattori chiave della compromissione della salute. E lo stesso messaggio veniva rilanciato sempre da Michael Marmot al simposio della World Mind del 2014 (video in alto): “Ogni area è un settore della salute: sono le condizioni della vita quotidiana, non solo quelle strettamente legate al sistema sanitario, che provocano le disuguaglianze di salute”.

Cosa vuol dire condizioni della vita quotidiana? In primo luogo la condizione di povertà. La salute, dimostra Marmot con i suoi lavori, segue il gradiente sociale, per cui chi è all’apice della piramide sociale tende ad avere una vita più lunga. Tuttavia, in molti Paesi europei e non, il sistema sanitario fornisce assistenza sanitaria gratuita a tutta la popolazione, per cui la povertà non dovrebbe essere un fattore di rischio.

Inoltre, sempre secondo le ricerche condotte dallo studioso britannico,  a una salute migliore è associata una miglior qualità di vita. Spesso questa differenza sociale dipende dal livello di istruzione, la quale permette di raggiungere due obiettivi fondamentali: l’emancipazione e un buon lavoro (e quindi influisce anche sulla povertà).  L’entità di questo gap varia da Paese a Paese e non in tutti gli stati il livello di istruzione è legato alla qualità della vita.  Ce ne sono alcuni, come la Svizzera, che riescono ad assicurare a buona parte della popolazione un lavoro dignitoso e un’ottima qualità di vita e conseguentemente una buona salute, a prescindere dal livello di istruzione.

Questo perché certi governi riescono a fare in modo che il maggior numero di risorse possibile siano distribuite equamente nella piramide sociale e indeboliscono in questo modo il legame tra determinanti sociali, come la povertà, e salute. Inoltre, queste condizioni non dovrebbero essere immutabili nel tempo e nel corso della generazione, ma migliorare in seguito a mirate politiche sociali. Deve esserci mobilità sociale ed è compito del governo e delle organizzazioni internazionali assicurare uguali possibilità a tutti: la povertà non deve essere un destino. E la salute deve restare un diritto.

Per questo Marmot ha individuato una serie di raccomandazioni che, se rispettate, porterebbero uno Stato ad avere una popolazione sana, senza grosse differenze in termini di salute e di durata di vita dovute allo stato sociale. Ecco quali sono:

• dare a ogni bambino la miglior infanzia possibile;
• permettere a tutti i bambini, adolescenti e adulti di raggiungere il massimo delle proprie capacità e avere controllo sulle proprie vite;
• dare impieghi equi e lavori dignitosi;
• assicurare un buon standard di salute;
• creare e sviluppare comunità sane e sostenibili;
• rafforzare il ruolo e l’impatto del sistema sanitario.

Il primo punto è di fondamentale importanza perché “non solo l’ambiente influenza i percorsi cerebrali e dello stress, ma esso modifica la funzione dei geni (epigenetica)”, come spiega Marmot nel libro “La salute disuguale” (Il Pensiero Scientifico Editore, 2016). Bambini con uno sviluppo emotivo e cognitivo appropriato avranno più benefici dalla scuola, perché avranno una migliore capacità di apprendimento, che è fondamentale per l’empowerment. Ma non sempre questo è possibile ed è compito della scuola “rompere il legame tra deprivazione e scarso sviluppo in età infantile”, così che ogni bambino abbia la possibilità di crescere e svilupparsi secondo tutto il proprio potenziale.

Quelle indicate dal ricercatore inglese sono tutte ottime – forse addirittura ovvie – raccomandazioni. Marmot tuttavia non può indicare soluzioni ai problemi specifici dei singoli Stati, poiché esse dipendono dalle loro condizioni interne. Ecco perché la risposta di Marmot all’intervento della ragazza, fatto durante il seminario alla Berkeley Way West, è stato: “Sono pieno di simpatia, ma io non ho una soluzione per il problema locale”.

Spesso poi a bloccare l’implementazione di tali raccomandazioni non è la disponibilità di mezzi, opportunità o tecnologie. Abbiamo la volontà?”, si chiede lo studioso britannico, nel suo volume.  E la domanda è rivolta a ciascuno di noi, perché l’equità deve essere un principio condiviso da tutti: un obiettivo che si può ottenere solo tramite la coesione sociale.“Una parte fondamentale per avere la volontà di agire è riuscire ad avere i giocatori allineati: governi, finanziatori e persone”, sottolinea Marmot nel suo libro.

Michael Marmot sarà uno dei relatori del Convegno “4Words: le parole dell’innovazione in Sanità”, quarta riunione annuale del progetto Forward, in programma a Roma il 30 gennaio 2020.