“Purtroppo avendo partorito sotto covid-19 il bimbo me lo hanno portato via subito, senza la possibilità di fare uno skin-to-skin e allattarlo… infatti in questi giorni mi hanno detto che non posso né vederlo né allattarlo, ma come è possibile? Come si può togliere questo diritto, così importante, per tutti i giorni che uno si trova in ospedale?”.
Con l’arrivo della pandemia all’inizio del 2020 i servizi sanitari regionali hanno dovuto rimodulare e adeguare i propri modelli organizzativi per rispondere in modo tempestivo all’emergenza sanitaria. Anche l’assistenza al percorso nascita ha richiesto adattamenti di natura sia clinica sia organizzativa, che hanno avuto un impatto sulla qualità percepita da parte delle donne e delle coppie che hanno affrontato la gravidanza in questo periodo. Nei primi mesi – come dimostrano anche le testimonianze di diverse donne, tra cui quella riportata in apertura dell’articolo – le abituali pratiche assistenziali volte a proteggere la fisiologia della nascita e la relazione madre-bambino, come la possibilità di avere una persona di fiducia in sala parto, il contatto pelle a pelle alla nascita, il rooming-in e l’allattamento, sono state sospese.
“La mancanza di dati che facessero chiarezza sulle modalità di contagio tra madre e bambino, sugli effetti del virus sul feto e sul neonato ha messo in difficoltà non solo le donne e le famiglie, ma anche i decisori”
“In assenza di solide evidenze scientifiche è giusto che le istituzioni siano prudenti”, ci spiega Serena Donati, che dirige il reparto Salute della donna e dell’età evolutiva dell’Istituto superiore di sanità (Iss). “La mancanza di dati che facessero chiarezza sulle modalità di contagio tra madre e bambino, sugli effetti del virus sul feto e sul neonato ha messo in difficoltà non solo le donne e le famiglie, ma anche i decisori, perché prendere decisioni con livelli di incertezza così alti è molto difficile. Ma è una responsabilità di salute pubblica”.
L’Italia, tra i Paesi prima colpiti dalla pandemia, ha saputo reagire fornendo in tempi brevi numerose indicazioni per le donne in gravidanza e per la riorganizzazione dell’assistenza al parto. Il 31 marzo 2020, meno di un mese dopo dalla dichiarazione dello stato di emergenza, è uscita la prima raccomandazione del Ministero della Salute su come organizzare il percorso nascita ribadendo che, nonostante ci fossero ancora poche conoscenze, non c’era indicazione al taglio cesareo per le donne Sars-cov-2 positive, l’opzione da privilegiare era quella della gestione congiunta madre-neonato, andava protetto l’allattamento materno. Ad aprile 2020, queste indicazioni sono state confermate anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, dalle principali agenzie di salute pubblica internazionali, dall’Iss e dalle società scientifiche di settore che hanno diffuso le prime evidenze disponibili a sostegno del rispetto della fisiologia della nascita raccomandando di non ricorrere di routine al taglio cesareo in caso di infezione in corso, di rispettare la garanzia di privacy e riservatezza della donna e della coppia, di assicurare la presenza di una persona di fiducia durante tutto il travaglio e il parto, di non separare la mamma dal bambino, di promuovere allattamento e rooming-in. Ma è andata davvero così?
I risultati dello studio Itoss-Iss
“L’Istituto superiore di sanità ha tentato di rispondere immediatamente all’emergenza pandemica in due modi diversi ma tra loro uniti: sintetizzando e diffondendo la letteratura prodotta e mettendo in piedi uno studio nazionale prospettico population-based per monitorare le donne in gravidanza con infezione da Sars-cov-2 ricoverate”, racconta Edoardo Corsi, ricercatore del reparto Salute della donna e dell’età evolutiva dell’Iss. Lo studio, condotto dall’Italian obstetric surveillance system (Itoss) dell’Iss, ha coinvolto tutti i punti nascita italiani che hanno assistito le donne in gravidanza durante la pandemia, con l’obiettivo di descrivere la qualità dell’assistenza alla nascita attraverso cinque indicatori: la presenza di una persona scelta dalla donna durante il travaglio e il parto, lo skin-to-skin, il rooming-in, la separazione madre neonato alla nascita e l’allattamento materno.
Con Edoardo Corsi e Donatella Mandolini del Reparto Salute della donna e dell’età evolutiva dell’Iss abbiamo parlato dell’impatto della pandemia sul percorso nascita. L’intervista ripercorre i risultati dello studio Itoss-Iss, unica fonte nazionale di dati sull’infezione da Sars-CoV-2 in gravidanza
Dei 5.360 casi di donne con diagnosi di positività entro sette giorni dal ricovero ospedaliero prese in considerazione dallo studio, il 33,2 per cento ha partorito mediante taglio cesareo, in linea con gli anni precedenti (31,8 per cento), ma con grande differenza per area geografica. “Ci aspettavamo un aumento di tagli cesarei invece la grande comunicazione che è stata fatta su questo da parte dell’Iss e delle società scientifiche di settore, che hanno sottolineato più volte come covid-19 non fosse un’indicazione al taglio cesareo, ha funzionato. Nel Regno Unito, ad esempio, nella prima fase della pandemia hanno fatto molti più cesarei di noi, mentre di solito viaggiano su percentuali più basse”, racconta Donati. I pochi cesarei dovuti a covid-19 in Italia (3,7 per cento) hanno riguardato casi di polmonite grave, associati spesso a parto pretermine. Parti pretermine che sono aumentati rispetto al periodo prepandemico (valore medio del 10 per cento vs il 6,7 nel 2019).
In caso di parto vaginale, in media il 37,5 per cento delle donne ha avuto vicino a sé una persona di fiducia durante il travaglio-parto, con una grande differenza rispetto agli anni precedenti (circa il doppio delle donne ha avuto questa possibilità nel periodo prepandemico), tra nord e sud del Paese (4,5 donne su 10 al nord rispetto a 1,6 su 10 al sud) e una leggera differenza tra donne italiane e straniere (38,6 per cento di donne italiane rispetto al 34,6 per cento di donne straniere). Questi dati fanno particolarmente riflettere perché le attuali indicazioni a livello nazionale e internazionale prevedono che la donna abbia accanto una persona a propria scelta per tutta la durata del travaglio e del parto, e durante la degenza. Si tratta di un ruolo la cui rilevanza va ben chiarita: la persona di fiducia della donna non deve essere considerata come i visitatori, per i quali esistono invece restrizioni all’accesso, ma come una figura di supporto e parte integrante del processo della nascita.
“Solo il 28,1 per cento delle madri ha potuto praticare il contatto pelle a pelle con il proprio bambino alla nascita”
“Anche alcuni degli altri indicatori non sono particolarmente rassicuranti”, continua Edoardo Corsi. “All’inizio della pandemia, ad esempio, solo il 28,1 per cento delle madri che aveva partorito per via vaginale ha potuto praticare il contatto pelle a pelle con il proprio bambino alla nascita. Per fortuna le percentuali sono poi salite, fino ad arrivare al 77,7 per cento durante la circolazione della variante omicron. Anche in questo caso permangono le differenze tra nord e sud del Paese, ma gli indicatori sono stati migliori per le donne straniere”. In media il 70,5 per cento delle donne ha potuto mantenere vicino il proprio piccolo dopo il parto, con la percentuale che si è ridotta al 36,8 in caso di taglio cesareo; la maggioranza delle mamme ha potuto condividere la stanza con il suo bambino (81,1 per cento in caso di parto vaginale e 56,4 per cento in caso di taglio cesareo) praticando il cosiddetto rooming-in; e l’88 per cento dei nati da parto vaginale è stato alimentato con latte materno. In tutti questi casi le regioni del nord Italia sono state più virtuose nel garantire queste buone pratiche.
I casi provengono per il 63,2 per cento dal nord del Paese, per il 13,4 per cento dalle regioni centrali e per il 23,4 per cento dalle regioni del sud e dalle isole
“Nonostante il nord Italia sia stato più colpito dalla pandemia rispetto al resto del Paese, le regioni notoriamente virtuose del nord si sono mostrate più reattive e più aderenti alle buone pratiche confermando il divario prepandemico”, commenta Corsi. “È interessante, però, osservare anche come sono cambiati i dati nel tempo: durante la circolazione delle varianti alfa e omicron gli indicatori del peri-partum hanno registrato un miglioramento significativo, verosimilmente grazie alla maggiore diffusione delle evidenze e delle raccomandazioni prodotte a livello nazionale e internazionale. La maggiore disponibilità di conoscenza, anche grazie alla tempestiva restituzione dei dati Itoss, ha migliorato l’appropriatezza della qualità dell’assistenza e la capacità organizzativa dei punti nascita”.
I dati sono stati raccolti tra il 25 febbraio 2020 e il 30 giugno 2021 (con una suddivisione in quattro fasi: fase I, fase II e fase III quando circolava il virus originario, e una quarta fase in cui circolava la variante alfa) e poi tra il 1° gennaio 2022 e il 31 maggio 2022 (fase in cui circolava la variante omicron)
Qualità dell’assistenza alla nascita: un problema culturale?
“Quando, all’inizio della pandemia, è stato avviato lo studio Itoss abbiamo pensato di raccogliere dati anche sugli aspetti relativi alla protezione della fisiologia della nascita e della relazione madre- neonato, temendo che, a causa dell’emergenza sanitaria, potessero rappresentare pratiche destinate a passare in secondo piano nell’offerta assistenziale”, afferma Donati. “È stata una scelta lungimirante che ci ha permesso di toccare con mano come nel nostro Paese, specie nelle regioni del sud, la protezione della fisiologia e il sostegno alla relazione madre-bambino non siano ancora aspetti culturalmente sedimentati nella pratica clinica, al pari degli interventi medici o chirurgici. I cambiamenti culturali richiedono tempi lunghi e l’eccesso di medicalizzazione che ha caratterizzato per decenni l’assistenza al percorso nascita in Italia sembra aver lasciato il segno. Le testimonianze delle donne separate dai loro piccoli nelle fasi inziali della pandemia esprimono la drammatica portata dell’impatto di queste scelte organizzative e assistenziali che, passata l’emergenza, purtroppo stentano ad essere abbandonate in tutte le realtà assistenziali”.
“Al sud le donne – che hanno un minor tasso medio di istruzione e occupazionale – allattano di meno e fanno più esami, ecografie, tagli cesarei”
Con Serena Donati è d’accordo anche Grazia Colombo, sociologa che si occupa di formazione e consulenza organizzativa e relazionale in una prospettiva psicosociologica con gli operatori impegnati con donne che diventano madri, intervenuta in un webinar organizzato dall’Iss: “Vorrei citare Ann Oakley, che diceva che mettere al mondo un figlio è un evento sociale perché ha a che fare con la funzione sociale di riprodurre la società, dunque ogni problema/tema che le donne incontrano con la maternità costituisce un problema/tema sociale”. Questi dati dovrebbero interrogarci, quindi, non solo su ciò che è accaduto durante il periodo della pandemia, ma in generale sullo stato dell’assistenza al parto e puerperio in Italia. Innanzitutto, la grande disparità nell’assistenza tra nord e sud Italia. “Al sud le donne – che hanno un minor tasso medio di istruzione e occupazionale – allattano di meno e fanno più esami, ecografie, tagli cesarei. C’è una maggiore medicalizzazione ma i dati relativi agli esiti come mortalità materna, neonatale e infantile non sono migliori. Allora il problema economico, spesso evocato, non tiene: questi dati sembrano dirci che al sud si spende di più. Forse che allora, ad esempio, l’allattamento con il biberon sia concepito come più moderno, più sicuro e percepito come maggiore indipendenza per la donna?”.
In questo senso, anche per trovare le cause e risolvere il problema, è opportuno porsi alcuni interrogativi: quale domanda di cura portano le donne delle regioni del sud agli operatori e quale interazione si crea fra questa domanda e le loro risposte assistenziali? Gli operatori sanitari sono orientati a considerare il parto un evento fisiologico e pronti e competenti a intervenire in caso sopraggiunga la patologia o a medicalizzarlo in maniera eccessiva? Quali messaggi di salute diffondono tra le donne che intraprendono una gravidanza? Sicuramente è necessario che queste domande se le facciano gli stessi operatori e che si interroghino anche sul perché si fa una determinata procedura in un determinato momento, in quel determinato modo, in quella situazione relazionale, con quella specifica donna.
“Quando nel reparto c’è un problema le prime procedure che vengono abbandonate sono quelle ad alto contenuto relazionale: non si smette di fare esami o di andare in sala operatoria, ma si smette di star vicino alla donna per aiutarla nel travaglio, nell’allattamento o nella cura del bambino. Allora è necessario farsi un’ulteriore domanda: come mai quando siamo operatori abbandoniamo in fretta una modalità comunicativa e relazionale adeguata?”, conclude Colombo. “Gli operatori hanno un potere che li porta a essere costruttori di cultura non solo sanitaria, ma anche sociale. Le cose che dicono, le cose che fanno costituiscono la possibilità di migliorare non solo la loro competenza professionale ma anche la domanda delle donne. E dovrebbero ricordarlo”.