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Obiezione di coscienza o di carriera?


Di cosa parliamo quando parliamo di obiezione di coscienza? Per molto tempo, l’obiettore era colui che si rifiutava di prestare il servizio militare. Oggi, questo significato è andato perso insieme alla leva obbligatoria e nel linguaggio comune con la parola “obiettore” ci si riferisce di solito al professionista sanitario che rifiuta di eseguire procedure mediche in qualche modo legate alla fine della vita umana, tra cui l’eutanasia, il suicidio assistito, la diagnosi prenatale con finalità eugenetica e l’aborto. La possibilità di essere obiettore di coscienza, non solo per i ginecologi ma anche per ostetrici e anestesisti, è un diritto previsto dalla stessa legge 194 del 1978 che garantisce il diritto all’aborto, purché la vita della donna non sia in pericolo. Nel 1978, dopo le forti mobilitazioni femministe che hanno portato il Parlamento a legiferare in materia, introdurre la possibilità di obiettare era necessario soprattutto per tutelare il pluralismo, si doveva tener conto di chi praticava la professione da prima che l’aborto fosse legale o di chi professava una confessione religiosa. Un modo per rispettare la coscienza individuale riguardo a un ambito moralmente sensibile. Ma ora che sono trascorsi 44 anni dalla legge, c’è chi vorrebbe abolire o limitare l’obiezione di coscienza. Perché? Perché un’opzione pensata per essere straordinaria con il passare del tempo è divenuta largamente maggioritaria. L’eccezione ormai la fanno i non obiettori.

“Significa mettersi in fila all’alba per poter prenotare un intervento perché in quella struttura e in quel giorno se ne eseguono solo cinque”

In Italia infatti sette ginecologi su dieci sono obiettori di coscienza. In alcune regioni, aziende ospedaliere o cliniche private convenzionate vanno dall’80 al 100 per cento, tanto che si parla di “obiezione di struttura”, in sostanza, là non è possibile eseguire interruzioni di gravidanza anche se la legge lo prevede. Come avevamo accennato in un precedente approfondimento sul tema, questi dati provengono dalla Relazione del Ministro della Salute in merito all’applicazione della legge 194/1978 che, appunto, il Ministero della salute è tenuto a presentare ogni anno al Parlamento. Relazione che presenta alcuni limiti, tra cui il ritardo con cui è stata resa pubblica (dovrebbe essere pubblicata entro il secondo mese dell’anno successivo a quello cui si riferiscono i dati, mentre questa è del settembre 2021 e i dati si riferiscono al 2019, del 2020 sono disponibili solo i preliminari). Inoltre, nella relazione viene segnalato che “alcune strutture hanno dichiarato di aver effettuato interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) pur non avendo in organico ginecologi non obiettori, dimostrando la capacità organizzativa regionale di assicurare il servizio attraverso una mobilità del personale non obiettore presente in altre strutture”. Come è possibile? Con l’impiego dei “gettonisti”. Un gettonista è un medico che l’azienda ospedaliera assume a contratto e paga a prestazione quando non dispone di abbastanza ginecologi non obiettori, una spesa a carico della Regione (e che ogni anno solo in Lombardia ammonta a 300.000 euro); alcuni di loro si spostano tra diversi ospedali e fanno solo interruzioni, tutti i giorni. Lo racconta con la sua esperienza diretta Elisabetta Canitano, ginecologa e fondatrice dell’associazione “Vita di donna”, in un’intervista di qualche anno fa e lo confermano Chiara Baldi e Chiara Severgnini in un’inchiesta sugli obiettori di coscienza in Lombardia, in cui si legge che “le scelte di coscienza dei singoli creano una figura professionale ad hoc, che si fa carico degli aborti che i colleghi non vogliono fare. Quasi un paradosso”.

Le quote di obiettori sono aumentate notevolmente nel decennio 2005-2014, dal 59 al 71 per cento. Ma questi numeri non rendono il peso che questa scelta ha sulle donne che vogliono abortire: mettersi in fila all’alba per poter prenotare un intervento perché in quella struttura e in quel giorno se ne eseguono solo cinque; dover cercare un’altra regione dove praticare l’intervento o addirittura doversi recare all’estero; ritrovarsi in strutture non accoglienti e colpevolizzanti. E, soprattutto, significa due cose: la domanda per questo servizio sanitario rimane insoddisfatta e le donne che non vedono rispettato questo diritto si rifugiano nella clandestinità, come ha fatto emergere anche un’inchiesta di “Presa Diretta” di qualche anno fa, condotta da Elena Stramentinoli. Anche il Consiglio d’Europa ha stabilito che, reiteratamente, l’Italia non garantisce pienamente il diritto all’Ivg. Il governo, infatti, “non ha fornito alcuna informazione sul numero o percentuale di domande d’aborto che non hanno potuto essere soddisfatte in un determinato ospedale o regione a causa del numero insufficiente di medici non obiettori”, come riporta “il Manifesto”. Per questo motivo, si legge nell’articolo, viene richiesto al governo di “fornire dati recenti sugli aborti clandestini, sul numero di obiettori di coscienza tra i farmacisti e il personale dei centri di pianificazione familiare, e informazioni sull’impatto che tutto ciò ha sull’accesso effettivo all’Ivg”. Tra i paesi che riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza, sono pochi quelli in cui si registrano percentuali di medici obiettori alte come in Italia, secondo un’analisi pubblicata sull’International journal of gynaecology and obstetrics. Esistono anche realtà, come l’Inghilterra, in cui chi è obiettore di coscienza non può lavorare nei consultori, i family planning. Altre in cui le normative che consentono l’aborto non prevedono il diritto all’obiezione. Per esempio, nell’Unione europea, non è contemplato in Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca e Romania. In questi casi l’obbligo dello stato di garantire il diritto a interrompere una gravidanza rende legittima la scelta di non assumere personale infermieristico obiettore di coscienza, come è avvenuto con Ellinor Grimmark, ostetrica svedese, quando ha inviato la propria candidatura a diverse cliniche dichiarando altresì di essere obiettrice per motivi religiosi. Non avendo ottenuto il lavoro, Grimmark ha iniziato un percorso legale per lamentare un trattamento discriminatorio arrivando fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo, questa però ha dichiarato il ricorso irricevibile e giudicato il caso “non configurabile come controversia sulla libertà di pensiero o di coscienza”.

Perché così tanti medici obiettano?
Ci aiutano a capire quali motivi si celano dietro questa scelta Elisabetta Canitano, di Vita di donna, Laura Onofri di Se non ora quando? – Torino e Silvana Agatone, di Laiga. Associazioni che si impegnano nel fornire sostegno alle donne sotto il profilo sanitario e sociale, nel fare un lavoro di pressione sui decisori politici e nel migliorare e salvaguardare l’applicazione della legge 194. Secondo il parere delle attiviste l’obiezione di coscienza è qualcosa di molto più complesso della scelta di un singolo medico. Essa riguarda piuttosto la cultura che esprime il servizio sanitario nei confronti delle donne. Canitano sostiene che il problema risiede nel “far passare come senso comune il fatto che l’aborto non riguarda le cure”. Ma come può un ospedale laico non offrire questo servizio medico? Chi sceglie di occuparsi della salute delle donne non dovrebbe sapere che la salute include anche questo, anche l’interruzione sicura della gravidanza? “La maggior parte dei direttori di unità operativa complessa provengono da università religiose, quindi l’obiezione di coscienza è la cosa più naturale che esista nel percorso di carriera” afferma la fondatrice di “Vita di donna”. Dello stesso parere anche Onofri: “L’obiezione è più di carriera, perché chi non obietta, carriera non ne fa. Non nego che ci possa essere una minima percentuale di medici e sanitari che obiettano per un principio etico o religioso, ma sono una minima parte”. Allo stesso tempo, prosegue Canitano, “come fanno i medici obiettori a fare la diagnostica prenatale? Perché non viene lasciata eseguire ai medici non obiettori? Come si fa a fare un’amniocentesi e poi a comunicare un risultato drammatico, se non si dà seguito al desiderio della donna di interrompere la gravidanza ma la si manda altrove, a quelli che fanno il ‘lavoro sporco’?”.

Ma non solo i medici sono coinvolti in questo sistema. Per esempio, racconta Elisabetta Canitano: “Lavoravo in un posto in cui avevamo degli anestetisti non obiettori. Fra il taglio del personale e il taglio degli straordinari alla fine il direttore dell’anestesiologia ha chiesto ‘Potreste fare obiezione tutti? Così vi posso mettere in turno in pronto soccorso, in rianimazione, dove mi servite e per la 194 faranno venire dei medici a convenzione’”. I gettonisti, appunto. “L’obiezione è tante cose. Il fatto è che l’aborto e la contraccezione non entrano come cure nell’ospedale. Finché continueremo a mettere le parole scelta dolorosa vicino alla parola aborto, in qualche modo l’obiezione di coscienza diventa un sollievo per i medici”. Silvana Agatone racconta invece che alcuni “infermieri obiettori si rifiutavano di portare la terapia farmacologica sul comodino della paziente che era in reparto per abortire con mifepristone (RU486). Se ne doveva ricordare il ginecologo non obiettore”. Le motivazioni di chi obietta possono essere tutt’altro che etiche, come riferiscono Baldi e Severgnini nella loro inchiesta. “Firmare la dichiarazione di obiettore significa rinunciare ai turni per le Ivg, agli aborti urgenti nelle ore di reperibilità e ai rischi che si corrono nel fare un’operazione chirurgica in cui qualcosa può sempre andare storto. Tanto più che si tratta di un intervento routinario, tecnicamente semplice e poco gratificante: non fa curriculum, non offre spunti per pubblicazioni prestigiose, non aiuta la carriera”. Le motivazioni di chi obietta possono anche essere legate al burn-out di medici ginecologi che si trovano a essere, soprattutto nei piccoli punti nascita, gli unici non obiettori e a operare quasi esclusivamente Ivg, questi possono decidere di obiettare anche dopo anni di applicazione della legge.

L’aborto è un servizio medico
Bisogna anche domandarsi quanto l’obiezione di coscienza abbia ricadute sulla preparazione dei medici nel caso di aborti spontanei. Anni fa, era l’ottobre del 2016, a Catania, Valentina Milluzzo moriva per un’infezione dopo aver abortito i suoi due gemelli, al quinto mese di gravidanza. I medici sarebbero responsabili di varie omissioni secondo la Procura: una “mancata instaurazione di antibioticoterapia”, un “mancato riconoscimento della sepsi e la mancata raccolta di campioni per gli esami microbiologici per tentare di diminuire l’infezione” e una “mancata rimozione di feti e placenta” Ad oggi, nonostante tutti i medici del reparto di ginecologia e ostetrica, compreso il direttore, fossero obiettori di coscienza, gli ispettori del Ministero della salute che hanno indagato sul caso dichiarano che l’obiezione di coscienza non c’entra con la vicenda. Quindi obiezione di coscienza o omissione di servizio? A chiederselo è anche Chiara Lalli, bioeticista che ai temi della riproduzione medicalmente assistita e dell’aborto ha dedicato diversi saggi e articoli. “Uno dei problemi della vasta diffusione dell’obiezione di coscienza – soprattutto ai vertici dei dipartimenti ospedalieri e delle scuole di specializzazione – è la ricaduta sull’insegnamento e sulla preparazione dei medici rispetto agli aborti spontanei. I medici sono abbastanza preparati per riconoscere i sintomi di un aborto in corso e sanno affrontare un intervento che si può complicare al punto da mettere a rischio la stessa vita delle donne? In questo caso però viene anche da domandare: un medico che rifiuta di intervenire fino a quando il feto è vivo, ‘dimenticando’ di accertare le condizioni della gestante e di valutare i rischi della sua omissione, può essere chiamato obiettore di coscienza? Avrà chiamato un altro medico se la sua coscienza gli impediva di evitare la morte di una paziente, o almeno di provarci? […] L’imminente pericolo di morte impedisce di invocare l’obiezione di coscienza, ma un medico che decide intenzionalmente di non intervenire infrange la deontologia medica e il codice penale”.

“Io mi accontenterei che i direttori di unità operativa complessa delle ostetricie e ginecologie non fossero obiettori”

In Italia ci sono ancora molti nodi da sciogliere attorno alla questione dell’aborto volontario, come scrive la giornalista Anastasia Martino. “Primo fra tutti quello di individuare quali sono i termini del dibattito più corretti per garantire il diritto delle donne di scegliere in maniera autonoma rispetto alla propria vita sessuale e riproduttiva. L’aborto dovrebbe essere spostato dall’ambito morale e religioso al piano dell’assistenza medica e del diritto delle donne, si tratta di un servizio medico e forse i tempi sono maturi perché sia garantito come tale senza possibilità di obiezioni da parte di terzi”. Ma quali potrebbero essere i primi passi verso questo cambiamento? Secondo Laura Onofri, “il vero cambiamento lo si potrebbe ottenere con l’aborto per telemedicina. L’aborto farmacologico implica l’utilizzo di farmaci (mifepristone e prostaglandine, in regime ambulatoriale o di day hospital, ndr) per porre fine a una gravidanza entro il primo trimestre. Questa pratica è già adottata in alcuni paesi con effetti molto positivi, come l’Inghilterra e la Germania, ed è stata una pratica molto utile anche durante la pandemia”. Canitano invece ritiene che il cambiamento debba toccare ambiti più politici: “Io mi accontenterei che i direttori di unità operativa complessa delle ostetricie e ginecologie non fossero obiettori. E questo non è difficile da fare. Siccome è un rapporto fiduciario che si rinnova ogni cinque anni è sufficiente dire che, in caso di obiezione, crolla il rapporto di fiducia perché non viene applicata la legge dello Stato che ti paga e quindi non sei più direttore. Non è una violenza, non è un abuso. Questo sarebbe un primo passo interessante”.

“L’aborto dovrebbe essere spostato dall’ambito morale e religioso al piano dell’assistenza medica e del diritto delle donne”

Abolire l’obiezione di coscienza sembra essere una strada difficile, poiché significherebbe per alcuni violare il diritto alla libera scelta della professione – ma chi vuole occuparsi della salute delle donne dovrebbe adempiere a questo compito in modo totale, altrimenti dovrebbe scegliere altre strade. Vanno quindi trovate altre modalità per impedire questi esiti: incoraggiare e premiare il lavoro dei non obiettori; equilibrare l’organico in modo da garantire che una struttura possa applicare la 194; fornire, come richiesto dal Consiglio d’Europa, dati corretti sugli aborti clandestini, sul numero degli obiettori di coscienza non solo fra i sanitari ma anche fra i farmacisti e il personale dei centri di pianificazione familiare e informazioni corrette sull’impatto che questo ha sull’accesso effettivo all’interruzione di gravidanza. Infine, rilanciare la grande discussione sulla salute riproduttiva delle donne e sull’educazione sessuale di ragazze e ragazzi.