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Non perdiamoci di vista: dalla telemedicina agli ospedali virtuali


Partiamo da ciò che è oramai noto: il sistema sanitario italiano, messo sotto pressione dalla pandemia covid-19, ha compiuto in pochi mesi quello che non era riuscito a fare nel corso di anni nel campo della telemedicina. Sebbene con la consueta frammentarietà di soluzioni adottate, ad essere omogeneamente ed uniformemente cambiata è l’opinione di medici, pazienti e decisori, che hanno messo da parte lo scetticismo per un graduale riconoscimento dell’utilità della telemedicina nel riorganizzare l’assistenza territoriale soprattutto per quanto riguarda la gestione delle malattie croniche. L’accelerazione digitale registrata durante la pandemia, in cui l’obiettivo primario era quello di consentire la continuità delle cure in un momento in cui l’accesso agli ospedali era vietato, ha riguardato però principalmente applicativi che permettevano la comunicazione da remoto tra assistiti e personale curante.

Oggi, come spiegato nell’articolo Losing Contact – Covid-19, Telemedicine, and the Patient–Provider Relationship, sebbene il mondo al di fuori degli ospedali sia tornato a riconoscere espressioni facciali, sorrisi e ad abbracciarsi normalmente, non è così all’interno degli ospedali, dove i dispositivi individuali di protezione (Dpi) continuano a essere la norma, limitando la comunicazione non verbale al solo contatto visivo. Secondo gli autori dell’articolo, anzi, la telemedicina “Attraverso le fotocamere dei computer, ci consente di vedere le reciproche espressioni facciali senza il rischio di contagio, raccogliendo più informazioni emotive di quelle che potremmo raccogliere in un incontro di persona che richiede Dpi. Vediamo scorci della vita dei pazienti: i loro animali domestici, la loro arte, la loro musica, tutte ciò che è al di fuori della loro malattia e che li rende ciò che sono. Oltre a consentire ulteriori approfondimenti per il team medico, la capacità dei pazienti di rimanere nel loro ambiente domestico può alleviare l’ansia, migliorare la comprensione delle informazioni e aumentare il loro comfort nel porre domande.”

“Vediamo scorci della vita dei pazienti: i loro animali domestici, la loro arte, la loro musica, tutte ciò che è al di fuori della loro malattia e che li rende ciò che sono”

Gli scettici (che comunque rimangono) sostengono che l’assistenza medica è migliore quando i pazienti vengono visitati di persona. Anche non considerando gli effettivi limiti imposti da mascherine e Dpi, questo tipo di argomento sembra mancare il vero punto: la domanda è se una visita con il supporto degli strumenti di telemedicina sia meglio di “nessuna visita”, non se sia meglio di una visita in presenza, perché le due modalità non sono mai presentate in sostituzione l’una dell’altra, quanto come una possibile integrazione. Follow up diagnostici, cura alla persona, cura infermieristica hanno bisogno sia di prossimità sia di telemedicina. I due concetti, quindi, lungi dall’essere in contrasto, sono anzi più vicini di quanto si possa immaginare: è proprio sulla integrazione (e non sostituzione) nel territorio di cure di prossimità (case della comunità, ospedali di comunità, infermiere di comunità) e telemedicina (nella sua accezione più comune di televisita, teleconsulto, telemonitoraggio e telerefertazione) che il Pnrr ha basato l’intera Missione 6, Componente 1. “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”, con l’obiettivo di trattare almeno 200mila persone attraverso gli strumenti della telemedicina entro il 2025. E questo non perché (o almeno non solo perché) il 22% della popolazione italiana è composta da cittadini residenti nelle così dette aree interne, lontane da centri di eccellenza ad alto volume: pensare che la telemedicina possa automaticamente tradursi nella possibilità di agganciare “da remoto” cittadini altrimenti difficilmente raggiungibili in presenza non ha infatti un riscontro nella realtà: in base ad alcuni studi effettuati in Canada e negli Stati Uniti infatti sembrerebbe che proprio coloro che potrebbero avvantaggiarsi della telemedicina sono in realtà quelli che ne fanno meno uso (zone rurali, anziani, persone con reddito basso).

“Se chiedi qual è la consapevolezza in Italia ti rispondo zero”

Occorre quindi trovare un modo per evitare di incorporare all’interno della telemedicina disuguaglianze e iniquità di accesso di questo tipo: se questo strumento viene utilizzato solo da una popolazione urbana, tecnologicamente alfabetizzata ed economicamente avvantaggiata finiremmo per aver mancato ancora una volta il punto. Ma quanta consapevolezza c’è di questo possibile bersaglio mancato? Lo abbiamo chiesto a Eugenio Santoro, responsabile del laboratorio di Informatica medica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs. “Se chiedi qual è la consapevolezza in Italia” dice Eugenio Santoro “ti rispondo zero, perché non c’è nel nostro Paese l’abitudine a fare studi di questo genere, e si parte sempre dal preconcetto che la tecnologia risolva problemi, senza poi andare ad indagare e misurare se davvero le cose migliorano. Negli Stati Uniti invece esistono studi che hanno misurato l’effettivo utilizzo di questi strumenti nella popolazione”. Le possibili soluzioni per eliminare queste disuguaglianze di accesso? “Innanzi tutto” continua Santoro, “riconoscere che in Italia il problema del digital divide c’è ancora, ed è dato dal fatto che le persone più anziane non riescono ad utilizzare questi strumenti o perché non hanno le competenze necessarie, o perché sono realizzati in maniera ancora troppo complicata, quindi senz’altro sarebbe necessario rendere più semplice l’utilizzo della telemedicina e cercare di fare maggiore cultura sui caregiver, ma soprattutto permane un problema di infrastrutture e un costo ancora troppo elevato degli abbonamenti a internet. Ma l’importante rimane sempre quello che dicevamo prima: poter misurare l’efficacia di questi interventi, che consentirebbe non solo di individuare i problemi alla base del mancato utilizzo degli strumenti di telemedicina in alcune specifiche popolazioni, ma potrebbe anche portare a scoprire che in realtà su certe persone e tipologie di pazienti, strumenti di questo tipo non sono efficaci, e sarebbe quindi meglio puntare sulla assistenza di tipo tradizionale”.

Ma in sostanza, in Italia, a che punto siamo? L’obiettivo della Missione 6 è raggiungibile?
“I bandi per le piattaforme di telemedicina, con tutte le definizioni necessarie e le regole da seguire, sono appena partiti” risponde Eugenio Santoro “e se vogliamo trattare 200.000 persone entro il 2025 le piattaforme dovranno essere in funzione nel giro di un anno. Quello che temo è che si tratterà di piattaforme calate dall’alto, senza che ci sia un reale coinvolgimento dei medici, o dei loro rappresentanti, che potrebbe rappresentare un problema se a piattaforma realizzata emergesse che non è stata data la giusta importanza ad alcuni elementi. L’organizzazione ospedaliera poi dovrà farsi trovare pronta: una volta che la piattaforma è disponibile bisognerà essere in grado di utilizzarla. C’è quindi bisogno da parte delle strutture pubbliche che si risolva il problema dell’organizzazione e della formazione in modo da attivare in maniera continuativa, nel momento in cui saranno disponibili, le prestazioni di telemedicina. Tutto questo però potrebbe non bastare laddove manchino delle linee guida o dei protocolli elaborati dalle società scientifiche, il cui ruolo in questo contesto è importante per riuscire a individuare i pazienti che possono essere trattati in telemedicina, perché se non c’è un interessamento da parte delle società scientifiche potrebbe verificarsi una percezione da parte dei medici della telemedicina come prestazione di serie B”.

Stabilire i “requisiti tecnici indispensabili per garantire l’omogeneità a livello nazionale e l’efficienza nell’attuazione dei servizi di telemedicina”, era l’obiettivo delle «Linee guida per i Servizi di telemedicina – Requisiti funzionali e livelli di servizio», recentemente pubblicate in Gazzetta Ufficiale.
Il documento, come si legge sul testo della GU, è articolato in tre sezioni:
1. Requisiti funzionali dei servizi di telemedicina (requisiti minimi di carattere funzionale che dovranno caratterizzare le soluzioni oggetto di sviluppo nei contesti regionali).
2. Requisiti tecnologici dei servizi di telemedicina (requisiti minimi di carattere tecnologico che dovranno caratterizzare le soluzioni oggetto di sviluppo nei contesti regionali per garantire l’erogazione omogenea dei servizi sanitari in regime di telemedicina)
3. Competenze e formazione (competenze e la conseguente formazione relativa allo sviluppo e alla efficacia dei servizi di telemedicina).

Eppure, sembra ancora mancare un tassello: l’analisi dei processi, sistematicamente trascurata come ci dice Alberto Tozzi (presidente iSPI, responsabile Area di ricerca malattie multifattoriali e malattie complesse, Ospedale pediatrico Bambino Gesù, Roma) nella videointervista. Un passaggio fondamentale “perché non è la tecnologia che deve essere integrata nei percorsi di cura ma sono i percorsi di cura che devono guidare le modifiche tecnologiche che ci servono”.

L’ospedale virtuale: l’esperienza dell’Nhs inglese e la realtà italiana
Ad aprile 2022, il Nhs England ha pubblicato una guida che incarica tutti i sistemi di assistenza integrata di creare tra i 40 e i 50 posti letto virtuali ogni 100.000 abitanti entro dicembre 2023, sebbene i dati interni del Nhs suggeriscano che è probabile che questa scadenza non sarà rispettata. L’urgenza è dovuta ad altri numeri preoccupanti: stando a quanto condiviso sempre da Nhs England i letti per adulti e per acuti mostrano un tasso di occupazione di circa il 94%. I reparti virtuali dovrebbero quindi “impedire ricoveri evitabili in ospedale o supportare la dimissione anticipata dall’ospedale”. Fornire cure domiciliari con il supporto della telemedicina non è quindi intesa come soluzione “svuota ospedali”, piuttosto come una modalità con cui riuscire a rispondere a tutti i bisogni medici acuti di una popolazione senza necessariamente fare affidamento su un edificio di mattoni. Ancora una volta, quindi, è l’analisi dei percorsi di cura dei pazienti che dovrebbe guidare l’inserimento della telemedicina all’interno di un ospedale e la virtualizzazione di parti del processo: questa analisi, come afferma Alberto Tozzi nell’intervista, non può prescindere dal coinvolgimento multidisciplinare di diversi specialisti e di tutti gli stakeholder, non ultimo il paziente stesso, utente finale e faro dell’applicabilità della telemedicina al percorso di cura “se per loro determinate modifiche del processo non sono accettabili vuol dire che bisogna cambiare strada”.