I dati riguardanti le aggressioni al personale medico e sanitario indicano un serio e preoccupante aumento di questo fenomeno finora colpevolmente sottostimato, con episodi di violenza fisica e psicologica che sono ormai quasi all’ordine del giorno. A dire basta ci hanno provato in tanti. L’Assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, dopo l’aggressione avvenuta all’Ospedale di Civitavecchia ad agosto 2022, aveva ad esempio sottolineato come non ci sia “alcuna giustificazione” in questi casi, ribadendo la necessità di calendarizzare il prima possibile la sua proposta di legge a riguardo, depositata presso gli uffici nei mesi scorsi. Una proposta che, oltre a prevedere protocolli d’intesa con gli uffici territoriali del Governo per potenziare la presenza delle forze dell’ordine nelle strutture sanitarie più a rischio, prevederebbe sostegno alle vittime di violenza da parte degli enti del SSR, anche e soprattutto nell’ambito di azioni in sede giudiziaria.
Un dato agghiacciante, che ci dà un’idea della portata di questo fenomeno, è emerso il 12 marzo 2022, in occasione della Giornata nazionale di prevenzione, che ha evidenziato come il 40% degli operatori sanitari INAIL abbia dichiarato di aver subito un’aggressione. Quasi 1200 operatori, il 45% dei quali costituito da medici e il 44% da infermieri, hanno infatti risposto a una survey con domande specifiche, e tra questi il 40% ha affermato di aver subito un’aggressione, mentre il 27% ha ammesso di averne subita addirittura più di una. Di questo preoccupante fenomeno abbiamo parlato con Filippo Anelli, Presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO), che molto si sta spendendo per cercare di porre un freno a tutto ciò, provando a cambiare la situazione innazitutto dal punto di vista culturale. “Ci sono due aspetti su questa questione, su ci siamo impegnati nel passato ed è importante proseguire su questa strada”, afferma Anelli. “In primis c’è l’aspetto repressivo, con il Parlamento che ha varato una legge che ha determinato un aumento dell’entità delle pene. La legge ora prevede fino a 16 anni di carcere per questo tipo di aggressioni e contestualmente non dando più l’onere al medico di far la denuncia, ma prevedendo una procedibilità d’ufficio che consente al magistrato di poter avviare e perseguire l’aggressore. Spesso tuttavia questa legge non viene applicata, quindi c’è bisogno di una sollecitazione perché entri nella cultura giuridica degli inquirenti e magistrati, affinché la deterrenza abbia un suo valore”. Oltre a questa, secondo il presidente Anelli, c’è poi una questione di carattere culturale, che ha una importanza persino maggiore. “Siamo figli di una cultura che ha smarrito il senso della professione del medico, che è considerato un tecnico della salute e non un professionista. Si è sempre provato a scaricare sui medici responsabilità che sono dell’organizzazione del servizio, banalizzando così la professione: ricorderete, ad esempio, l’uccisione della povera dottoressa Paola Labriola a Bari, quando il suo assistito è diventato il suo carnefice”. E purtroppo si tratta solo di un episodio tra tanti.
“Siamo figli di una cultura che ha smarrito il senso della professione del medico, che è considerato un tecnico della salute e non un professionista”
FNOMCeO si sta impegnando sul cambio di mentalità, perché venga promossa una cultura del professionista, dal momento che quella del medico è una professione che deve essere anche d’esempio alla cultura del Paese. È fatta di fatica, sudore, impegno. Ma soprattutto è basata sulla solidarietà, che determina la passione e la generosità dei medici. “Lo abbiamo visto – dice Anelli – anche durante la pandemia di Covid-19: questa dedizione è legata al fatto che i medici giurano di vincolare la loro professione ai beni del cittadino. Se ciò fosse compreso, se il medico venisse inquadrato in questo contesto, la professione acquisirebbe maggiore forza”.
Una emergenza internazionale
Almeno per stavolta, tuttavia, non possiamo parlare di fenomeno culturale italiano, poiché la faccenda sembra riguardare purtroppo anche altri Paesi. Nuovi dati raccolti nel Regno Unito infatti evidenziano che gli atti di violenza negli ambulatori dei medici di base sono quasi raddoppiati in cinque anni, con la polizia che registra una media di tre episodi di violenza al giorno. Il personale si trova ad affrontare aggressioni, maltrattamenti e abusi senza precedenti da parte dei pazienti, con gli ambulatori che lottano per far fronte a livelli ingestibili di domanda che spesso danno il la a questi attacchi. La situazione non è diversa nemmeno negli Stati Uniti, dove l’American Medical Association continua a spendersi quotidianamente contro la cultura della violenza, in generale ma soprattutto contro i medici e gli operatori sanitari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che il 38% degli operatori del settore medico-sanitario americano subisca violenza fisica a un certo punto della propria carriera, e difatti le lesioni causate da attacchi violenti contro i professionisti del settore sono cresciute del 67% dal 2011 al 2018, con una probabilità cinque volte maggiore per gli operatori sanitari di subire violenza sul posto di lavoro rispetto a quelli di tutti gli altri settori, secondo i dati dell’Ufficio Statistico del Lavoro degli Stati Uniti.
Anche Anelli ribadisce come si tratti di “un fenomeno mondiale, della società attuale”.
“Quando presenti lo scienziato e il cittadino dandogli lo stesso peso è chiaro che fai una operazione di banalizzazione”
A questo però si lega anche una riflessione che dovremmo fare tutti, che probabilmente può aiutare a cambiare le menti delle persone: siamo in grado di evitare che venga sminuita la professione del medico? “Quando presenti lo scienziato e il cittadino dandogli lo stesso peso – sostiene Anelli -, è chiaro che fai una operazione di banalizzazione, al punto che la medicina è sembrata quasi far parte di un sistema economico, alla stregua di un supermercato. È questa cultura universale che va cambiata”. Anche in Europa si è sviluppata questa idea del medico tecnico, che lavora solo per guadagnare e non anche perché ha una missione da svolgere. “Ma per noi non è così”, sostiene a gran voce Anelli. È ovvio che far comprendere l’importanza “speciale” del medico e degli operatori sanitari alle persone non cancellerà definitivamente le aggressioni, ma dovremmo capire che tutti noi abbiamo un ruolo nel contribuire a creare un ambiente il più sicuro e accogliente possibile, in cui il personale sanitario possa lavorare tranquillamente, dal momento che ne va del bene comune e della nostra salute.