La malattia mentale è ereditaria? O, meglio, ereditiamo dalla nostra famiglia una predisposizione genetica ai disturbi psichici? Il tema è scivoloso. Quanto contano i fattori ambientali e quanto il nostro corredo genetico rispetto alla possibilità di ammalarci? Polimorfismi dei recettori della serotonina, microRNA, vulnerabilità genetica, gli studi non mancano ma i risultati non sono esattamente conclusivi. Si sprecano le indagini sulle coppie di gemelli alla ricerca dei fattori genetici (almeno in parte ripuliti dal condizionamento dell’ambiente) responsabili dell’insorgere delle psicopatologie, ma non si va molto oltre i “potrebbe essere” e i “non è escluso che”.
Resta e sembra destinato a restare un quesito scientifico senza risposta, suggestivo e anche letterariamente intrigante. Eppure c’è chi ha sperimentato la presunta ereditarietà sulla propria pelle, chi è nato da una famiglia in cui il numero di casi di malattia mentale erano nettamente al di sopra del normale. Ross Szabo è uno di questi e ha deciso di raccontare la sua esperienza in un discorso pubblico, di quelli inspirational che piacciono tanto al pubblico americano. Ross è di Nazareth (Pennsylvania), partorito all’ospedale di Bethlehem (sempre Pennsylvania), quindi ha le carte in regola per fare un buon numero di proseliti.
Nella famiglia di Ross, sia da parte di padre sia da parte di madre, abbondano i casi di problemi mentali: depressione, ansia, disturbo bipolare, schizofrenia, dipendenze. E Ross, cresce con la convinzione che il dubbio non è se anche lui sarà colpito da una malattia mentale, ma quale e quando. Una spada di Damocle quasi impossibile da sopportare. Infatti, appena compiuti i 16 anni, Ross comincia a mostrare sintomi evidenti di un disturbo bipolare, prima un forte sentimento di solitudine, poi i pensieri di morte, quotidiani, insostenibili.
Eppure il giovane non ne parla con nessuno, non è abituato a farlo. Sii culla nell’idea che prima o poi starà meglio, che non può durare per sempre, fino al tentativo di suicidio e al ricovero in ospedale. È lo spartiacque per il ragazzo americano che sorride dalle foto di infanzia che scorrono sullo sfondo, “Decido di andare in terapia e per la prima volta riesco a non fingere e capisco che devo imparare a piacere a me stesso perché se piaci a te stesso puoi far fronte a qualsiasi cosa”. “Sperimentare la perdita è come sperimentare l’amore, e trovare una luce nel buio”, aggiunge. Un percorso di recovery con tutti i crismi, forse anche un po’ banale nella sua tragica linearità.
Quello che rende la storia di Ross Szabo diversa dalle altre è ciò che avviene dopo le dimissioni dall’ospedale. Una volta tornato a scuola, viene immediatamente ribattezzato “The Crazy Kid”, il ragazzo matto. Un giorno però uno psicologo fa visita alla sua classe per parlare dei pazienti che aveva in trattamento, e tra gli studenti cominciano le battute, le risate, insomma tutto il corredo di demenzialità adolescenziale che spesso si scatena in occasioni come quella. Allora il ragazzo, che non stava ridendo, si lamenta con lo psicologo che lo invita a fare lui qualcosa. Ross ci pensa un po’ su e poi si alza in piedi: “Fammi parlare con loro di quello che significa avere un problema del genere”, risponde. Poi comincia a parlare alla classe e non si ferma più.
Negli anni successivi, tra i 17 e i 22, proprio nel periodo più buio della sua esistenza, Ross Szabo gira il paese per raccontare a un’infinità di studenti liceali (nel video parla di 500.000 persone) cosa significa avere un disturbo bipolare. La salute mentale è un po’ come la salute fisica, sostiene Ross, bisogna educare le persone, far crescere la consapevolezza. Raccontare le storie, la propria storia, non è altro che questo. Il potere delle parole è dentro ognuno di noi, chiude Ross un po’ alla Star Wars, bisogna guardarsi dentro, scoprirlo e lasciarsi guidare.