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Le decisioni sui farmaci: perché ci riguardano e come renderle condivise


Quanto costano i nuovi farmaci e perché? Quanto deve guadagnare l’industria per avere risorse sufficienti per continuare a fare ricerca? Cosa si può fare per migliorare l’accesso dei cittadini ai nuovi farmaci efficaci ma costosi senza scoraggiare l’innovazione? Noi italiani siamo molto fortunati, perché possiamo permetterci il lusso di non farci troppo spesso queste domande: il Servizio sanitario nazionale garantisce la rimborsabilità delle terapie utili grazie alle tasse pagate dai cittadini in ragione del proprio reddito. Ma in molti Paesi del mondo non funziona così e, nel migliore dei casi, sono le assicurazioni che permettono di potersi curare.

Non è casuale, dunque, che durante l’emergenza pandemica sia cresciuta l’attenzione per questi problemi in nazioni come gli Stati Uniti, dove una ampia fetta della popolazione non può accedere alle cure: 30 milioni di statunitensi non sono assicurati.

La maggior parte della spesa di un farmaco non è nella produzione ma nello sviluppo che potrebbe aver avuto luogo anni prima”, ha scritto Standish Fleming sulla rivista economica Forbes a fine luglio. “Nel bel mezzo della pandemia, con miliardi di dollari di perdite economiche in gioco – per non parlare della sofferenza umana – la scoperta e la produzione di farmaci avvengono in modo contestuale. Industria e governo stanno spendendo decine di miliardi di dollari per abbreviare i tempi necessari per giungere alla disponibilità di una cura. I cittadini sono stati messi di fronte alla cruda realtà sia dei costi sia del valore dei nuovi farmaci”.

Ecco: “messi di fronte” a qualcosa che ci riguarda ma che non conosciamo. Infatti, da una parte si tratta di questioni con cui tutti i cittadini prima o poi si trovano a dover fare i conti, dall’altra la nostra conoscenza dei meccanismi che orientano le scelte delle istituzioni a proposito di farmaci è molto incompleta, come ha dimostrato anche un piccolo studio svolto negli Stati Uniti.

Un grande problema è dunque quello del costo, anche se non sempre ce ne accorgiamo: perché per accedere ad un farmaco il Servizio sanitario deve spendere così tanto? “I due fattori principali sono la cura intensiva del paziente necessaria negli studi clinici (le sperimentazioni necessarie per l’approvazione, ndr), in particolare per i pazienti più gravemente malati, e l’elevato tasso di fallimento”, spiega Fleming. Purtroppo, le tecnologie che sono alla base delle terapie più innovative aumentano i costi invece di ridurli. L’insuccesso, poi, è sempre dietro l’angolo ed è nella natura stessa dello sviluppo di un medicinale, trattandosi di un processo sperimentale.

A dire il vero, da parecchi anni c’è un acceso dibattito sul costo reale dello sviluppo di un nuovo farmaco. “Il problema più grande è stabilire quello di cui si deve tener conto per calcolare il costo totale”, spiega Sarah Boseley, la responsabile delle pagine di salute del quotidiano britannico The Guardian (4). “Le grandi aziende farmaceutiche sostengono la necessità di calcolare non solo il costo industriale delle materie prime e della produzione, ma anche quello di ricerca e sviluppo del farmaco, compresi quelli di tutti i farmaci che non riescono ad arrivare sul mercato.” Del resto, osserva sempre Fleming, “chi fa ricerca non sa in anticipo cosa funzionerà, si devono mettere alla prova molte idee candidate a diventare una terapia, la maggior parte delle quali fallirà dopo aver investito decine di milioni di dollari per le sperimentazioni cliniche”. A fronte di questi costi così alti, rispondono però le aziende, lo Stato trae vantaggio dalla riduzione della spesa sanitaria per l’assistenza dei pazienti a cui alcuni farmaci molto efficaci sono somministrati. E, inoltre, sul piatto della bilancia potrebbe esser giusto anche considerare il minor numero di giorni di lavoro perduti a causa della malattia o tutte le spese non propriamente sanitarie sostenute dal malato: i cosiddetti costi indiretti.

Resta il fatto che negli ultimi vent’anni la redditività delle grandi aziende farmaceutiche è stata significativamente maggiore rispetto a quella di altre grandi aziende private attive in altri ambiti. Ma uno studio pubblicato su un’importante rivista statunitense, il Journal of the American Medical Association (JAMA), mostra che la differenza è meno pronunciata se si considerano le spese di ricerca e sviluppo. Come concludono gli autori, però, “i dati sulla redditività delle grandi aziende farmaceutiche possono essere rilevanti per la formulazione di politiche basate sull’evidenza per rendere i farmaci più accessibili”.

Una delle domande chiave diventa dunque: è possibile conciliare le costose innovazioni delle terapie con il diritto dei cittadini di accedere alle cure? Un servizio sanitario improntato – come quello italiano – ai principi della equità e dell’universalità non può che prevedere una risposta affermativa. Bisogna dunque trovare il modo di “governare” questa complessità. Lo spiega bene Nello Martini, oggi presidente della Fondazione Ricerca e Salute dopo aver diretto l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) dalla sua fondazione al 2008. Il primo, essenziale passo è la conoscenza approfondita delle dinamiche che riguardano i medicinali: in concreto, occorre che i decisori sanitari conoscano i dati raccolti dai ricercatori indipendenti e dalle industrie durante tutte le fasi dello sviluppo e della sperimentazione dei medicinali, i meccanismi che orientano la prescrizione dei farmaci da parte dei medici, i percorsi attraverso i quali i farmaci sono messi a disposizione delle persone che ne hanno bisogno. Per esempio, per un cittadino non è la stessa cosa che un farmaco sia dispensato solo in ospedale o che possa trovarlo direttamente nella farmacia sotto casa, osserva Martini.

Seguendo i percorsi dei farmaci possiamo dunque capire l’insieme del servizio sanitario nazionale, accorgendoci anche delle situazioni che limitano o condizionano l’equità dell’accesso alle cure, e che favoriscono quelle disuguaglianze assolutamente incompatibili con lo spirito della Riforma sanitaria che 40 anni fa ha regalato al nostro Paese un servizio sanitario invidiato da tutte le nazioni del mondo.

Gli interessi del servizio sanitario, dei cittadini e delle industrie sono ovviamente diversi: è possibile gestire queste differenti esigenze? E se fossero proprio delle regole condivise da tutti gli attori del sistema la soluzione capace di governare questa complessità? Ci sono due possibili risposte, spiega Martini. Una prevede che un’agenzia nazionale come l’Agenzia italiana del farmaco gestisca tutto ciò che riguarda i farmaci: l’istituzione pubblica scrive le regole e controlla che siano osservate. “C’è una seconda ipotesi – prosegue – ed è quella di definire le regole ma – all’interno di queste regole e pur in presenza di interessi differenziati – sono fissati degli obiettivi e pur mantenendo la distinzione dei ruoli si arriva ad una partnership vera.Quindi non una vera e propria attività di controllo, ma una collaborazione capace di anticipare e risolvere i problemi, senza ignorare i possibili diversi obiettivi degli attori in campo.

Perché questo secondo approccio sarebbe da preferire? Perché rispecchia di più quel che già avviene nel mondo reale. Non si può non considerare che alcune innovazioni tecnologiche hanno cambiato radicalmente la terapia – se non la cura – di molte malattie. Ormai da diversi anni, la ricerca sta producendo trattamenti mirati più direttamente alle caratteristiche genetiche e molecolari dei malati. Allo stesso modo, si sta rapidamente procedendo alla messa a punto di soluzioni tecnologiche capaci di supportare il paziente nel sorvegliare i sintomi della malattia, facilitandogli l’assunzione delle terapie o aiutandolo a ricordare di dover prendere le medicine prescritte dal medico curante: le cosiddette terapie digitali.

Si preannuncia dunque un possibile cambiamento nel modo col quale alcune terapie sono erogate e i sistemi sanitari di diverse nazioni stanno mettendo a punto le modalità utili per valutare ed eventualmente approvare le nuove digital therapeutics: apps, software, fino a veri e propri processi di cura. Le agenzie regolatorie statunitensi (la Food and drug administration – Fda) e inglesi (il National institute for health and care excellence – Nice) stanno studiando approcci diversi che prevedono nel primo caso una sorta di pre-certificazione in base all’affidabilità dell’azienda produttrice e non in relazione al prodotto e, nel caso dell’ente britannico, di una collaborazione tra il Nice e il produttore per svolgere un’accurata valutazione dei costi e dei benefici dell’innovazione e del valore che la sua introduzione nel servizio sanitario può promettere al malato. Considerate le caratteristiche peculiari di alcuni di questi prodotti, è stata proposta anche una modalità di valutazione lungo l’intero ciclo di vita della tecnologia.

Molte terapie avanzate sono dunque, nei fatti, una sorta di percorso di cura che rende necessario la riorganizzazione di servizi assistenziali, il ripensamento di spazi ambulatoriali e ospedalieri, la collaborazione stretta tra centri di ricerca pubblici e privati: un esempio tipico è quello delle cosiddette CAR-T che prevedono l’ingegnerizzazione genetica dei linfociti T per contrastare alcuni tumori ematologici: le cellule T vengono prelevate dal sangue del paziente, modificate geneticamente in modo tale da esprimere sulla loro superficie il recettore CAR capace di aumentare la risposta immunitaria, e nuovamente infuse nel paziente stesso. Le CAR-T sono uno degli esempi più avanzati della medicina personalizzata applicata all’oncologia. Ogni dose viene sviluppata e prodotta per un singolo paziente partendo dalle sue stesse cellule.

Negli ultimi quattro decenni, i processi di approvazione e regolamentazione dei prodotti farmaceutici sono cambiati, talvolta è aumentata la complessità e altre volte invece il processo è stato semplificato: sempre più spesso si ricorre a procedure accelerate, percorsi di valutazione abbreviati, con l’obiettivo di guadagnare tempo nell’interesse non solo del malato che potrebbe beneficiare più rapidamente di una cura ma anche delle imprese, che sicuramente possono trarre vantaggio da una precoce immissione del prodotto sul mercato. Purtroppo, alle opportunità offerte da questi nuovi percorsi approvativi fanno riscontro dei rischi in termini, per esempio, di qualità del dato utile alla valutazione o di trasparenza dei dati delle sperimentazioni.

Questi modi per “saltare la fila” (come li hanno ribattezzati alcuni autori italiani) consentirebbero all’autorità regolatoria – se ben utilizzati – di dare la priorità ai farmaci più promettenti, senza ridurre il tempo necessario per la valutazione. Al contrario, la gestione delle evidenze disponibili al momento della presentazione del dossier, che spesso consistono in un insieme di dati clinici ancora parziale, aumenta la complessità del processo decisionale. Le agenzie affrontano questo problema incanalando farmaci promettenti attraverso specifici percorsi regolatori o autorizzazioni speciali (per la European Medicines Agency è un’approvazione condizionale; per la Food and Drug Administration è un’approvazione accelerata; per l’Australian Therapeutic Goods Administration è un’approvazione provvisoria e per Health Canada un avviso di conformità alle condizioni) che vengono assegnate ai farmaci che mostrano incertezze sulla sicurezza e sull’efficacia durante la loro valutazione.

Un’attività di costante controllo da parte delle agenzie regolatorie è difficilmente sostenibile, anche perché le regole sono aggirate o non sono rispettate da molte delle parti in causa, comprese alcune istituzioni pubbliche: “Mentre molte aziende farmaceutiche hanno migliorato la capacità di segnalare i risultati degli studi negli ultimi anni, un gran numero di università e centri medici accademici continua a registrare cattivi risultati. Ironia della sorte, anche i National institutes of health (la maggiore istituzione statunitense di ricerca, ndr) è parte del problema: i suoi migliori istituti per le sperimentazioni cliniche hanno una scarsa esperienza nel riportare i risultati delle sperimentazioni di cui sono responsabili.

Se un’attività regolatoria improntata al controllo è impossibile da mettere in atto, quali sono le alternative?

Le autorità regolatorie, in collaborazione con l’industria, la comunità scientifica e dei ricercatori e con i pazienti, dovrebbero garantire che le domande chiave senza risposta al momento dell’approvazione del farmaco o del dispositivo medico siano risolte tempestivamente durante la prima fase della commercializzazione. Un gruppo di ricercatori molto noti ha proposto una serie di principi guida che dovrebbero informare l’attività di ricerca pubblica e privata nel periodo successivo alla commercializzazione.

In primo luogo, le agenzie regolatorie di farmaci e dispositivi, gli enti che si occupano di valutazione delle tecnologie sanitarie e le istituzioni che devono sostenere i costi delle terapie dovrebbero programmare gli studi da svolgere per raccogliere le evidenze utili per completare la base di conoscenze sulle terapie approvate. Dovrebbero essere avviati e conclusi per primi gli studi capaci di determinare il beneficio clinico di una terapia e non quelli che si ripromettono di valutare esiti poco rilevanti per il paziente. In terzo luogo, gli studi dopo la commercializzazione di un prodotto dovrebbero prevedere un confronto tra la nuova terapia e la migliore tra quelle a cui si ricorre comunemente. In quarto luogo, lo svolgimento di studi osservazionali dovrebbe essere limitato ai casi in cui non è possibile eseguire studi metodologicamente più affidabili, come i trial randomizzati controllati. Quinto, l’efficienza degli studi randomizzati dovrebbe essere migliorata semplificando il reclutamento dei pazienti e la raccolta dei dati attraverso tecnologie informatiche innovative. Sesto, i governi dovrebbero sostenere e facilitare direttamente la produzione di dati comparativi post-marketing investendo nello sviluppo di reti di ricerca collaborativa e sistemi di raccolta dati che riducano la complessità, i costi e lo spreco. Infine, dovrebbero essere previsti incentivi e sanzioni economiche per chi non si attiene alle regole condivise.

In questo contesto e in anni in cui la tecnologia propone ad un ritmo sostenuto novità importanti potenzialmente utili per la salute dei cittadini, uno dei primi passi è quello di raggiungere un consenso tra tutti gli attori del sistema riguardo il significato da attribuire al termine innovazione (13). “Bisogna intenderci su cosa sia realmente un’innovazione” – spiega Antonio Addis, del Dipartimento di Epidemiologia del Servizio sanitario del Lazio ASL Roma 1 – “anche per rendere il processo di valutazione trasparente e riproducibile.” L’approccio dell’agenzia regolatoria italiana ha voluto concentrare l’attenzione su tre elementi: il bisogno di salute che un nuovo prodotto può potenzialmente soddisfare, il valore terapeutico aggiunto e la qualità delle prove disponibili a favore del nuovo farmaco, valutate attraverso il framework elaborato dal GRADE working group, una rete di ricerca internazionale che si occupa di valutazione della qualità della ricerca clinica. Sarebbe dunque molto importante trovare un’intesa tra i diversi attori del sistema. Questo accordo dovrebbe essere capace di coinvolgere in modo attivo anche i cittadini, i pazienti e i loro familiari attraverso modalità trasparenti di rappresentanza nei luoghi e nei momenti della decisione.

Sarebbe un passo importante anche per allineare l’investimento per le terapie al valore che esse possono ragionevolmente promettere.

L’armonizzazione anche a livello internazionale dei criteri utilizzati per definire l’innovazione farmaceutica è essenziale anche per consentire un accesso più rapido di questi prodotti a percorsi normativi specifici e denominazioni speciali”, sostiene Addis che è anche componente della Commissione Tecnico Scientifica dell’Aifa. Un approccio del genere andrebbe a vantaggio di tutte le parti interessate e coinvolte nello sviluppo di farmaci innovativi e non solo: le aziende farmaceutiche sarebbero consapevoli dei requisiti che devono soddisfare per ottenere lo status di innovativo, le autorità regolatorie potrebbero dare più prontamente accesso a percorsi e autorizzazioni speciali, gli enti preposti alla valutazione delle tecnologie (agenzie di health technology assessment) e le istituzioni che devono sostenere la spesa avrebbero elementi ulteriori per le proprie valutazioni e ai cittadini sarebbe garantito un accesso più rapido ai farmaci necessari.

Occorre dunque riorientare il percorso di governo dell’innovazione sanitaria – sostiene Martini – per fare del farmaco non solo una voce di spesa ma anche uno strumento di sviluppo della ricerca, chiudendo una fase storica e aprendone un’altra. Una fase nuova che sia capace di mettere insieme diversi attori attraverso un processo che si basi sul confronto e sul rilancio dell’attività di ricerca. Non solo per migliorare la salute dei cittadini ma, più in generale, per l’avanzamento sociale del Paese.