***L’intervista a Daniele Salvi è stata girata in data 11 marzo 2020, i contenuti fanno quindi riferimento a quella fase dell’emergenza.***
“La più grande paura è di essere io a trasmettere l’infezione dopo essere stato contagiato da qualche paziente. Per il resto non ho paura, o almeno non più che con altre patologie”.
F., 29 anni, è un infermiere Ares 118. Da ormai cinque anni lavora sulle ambulanze, coprendo la periferia nord-est di Roma, da Rebibbia, San Basilio, una parte di Talenti, fino a Monti Tiburtini e Pietralata. Come tutti gli operatori sanitari, nel corso dell’emergenza Covid-19, è particolarmente a rischio, trovandosi ogni giorno in contatto con pazienti potenzialmente infetti. Dal momento che si occupa di primo soccorso, infatti, F. non ha la certezza che i suoi pazienti siano positivi al Sars-CoV-2, ma “in questi ultimi giorni sono tutti potenzialmente infetti da nuovo coronavirus: la differenza sta nell’aver avuto un contatto diretto o indiretto con una persona positiva al test”.
Grazie ai dispositivi di protezione di cui sono dotati, però, si sente al sicuro, secondo lui molto più di quanto potrebbero esserlo i commessi o i cassieri di un supermercato. “L’unico problema è che i Dispositivi di Protezione Individuale ormai scarseggiano e rischiamo di trovarci senza nell’arco del turno di 12 ore”.
Il primo paziente probabilmente affetto da covid-19 lo ha incontrato ormai un paio di settimane fa. “Aveva avuto un contatto diretto con un soggetto proveniente dalla zona rossa ed effettivamente presentava la sintomatologia descritta dall’OMS. In questo caso specifico lui aveva detto di aver incontrato una persona della zona rossa già al telefono, quindi noi siamo stati allertati dalla Centrale Operativa e ci siamo recati sul posto con tutti i dispositivi di protezione individuali di cui disponiamo: le mascherine FFP3, la tutaNBCR, i guanti e gli occhiali”. Nonostante in questo periodo le chiamate al 118 siano di meno, probabilmente perché le persone hanno paura di andare in ospedale temendo di essere contagiate, da qualche giorno i pazienti che chiamano con sintomatologia da covid-19 sono aumentati e Daniele entra in contatto con almeno due di loro in ogni turno di lavoro.
La più grande paura è di essere io a trasmettere l’infezione dopo essere stato contagiato da qualche paziente.
Al 22 marzo, infatti, il totale dei casi positivi al nuovo coronavirus nella Regione Lazio è arrivato a 1272, 186 in più rispetto al giorno precedente. Tra loro, 671 sono ricoverati, 79 sono ricoverati in terapia intensiva e 522 sono in isolamento domiciliare. I deceduti sono 53, mentre i guariti 58. Alla luce dell’aumento dei casi, nonostante ancora non siano allarmanti come in molte regioni del nord, la Regione Lazio ha deciso di affiancare all’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, hub regionale, altri ospedali covid. Già attivi sono il covid 2 Hospital, all’interno del Presidio Columbus del Policlinico Gemelli, e il covid 3 Hospital, in una casa di cura privata a Casal Palocco. Presto a Roma saranno cinque le strutture dedicate ai pazienti infetti dal coronavirus: oltre a queste tre, ci saranno il covid 4 Hospital, in una torre del Policlinico Tor Vergata, e il covid 5 Hospital, nell’Eastman del Policlinico Umberto I.
“All’inizio dell’emergenza, una volta arrivato sul posto ed eseguito il triage per valutare la veridicità o meno della situazione descritta dal paziente, se il paziente aveva avuto un contatto diretto con una persona positiva al test del coronavirus e presentava la sintomatologia – che può essere febbre, difficoltà respiratorie, mal di gola, in qualche caso diarrea – lo trasferivo allo Spallanzani. Adesso, invece, la maggior parte degli ospedali ha allestito il cosiddetto percorso febbre, e portiamo là i pazienti sospetti. Non entriamo direttamente nei locali, ma facciamo il triage del paziente all’aperto”.
L’ospedale in cui portare i pazienti gli viene comunicato dalla Centrale Operativa e generalmente viene scelto in base a un criterio di vicinanza, come per i soccorsi ordinari. “Se il paziente ha parametri stabili, possiamo anche allontanarci per portarlo in un ospedale con più posti a disposizione e in cui sa che le procedure sono più veloci. E in questo periodo capita di doversi spostare di zona, comportando maggiori rischi per il paziente e per noi operatori. Comunque la decisione sta sempre alla Centrale Operativa”. Una volta che al paziente vengono fatti il tampone e la tac nelle 24 ore successive all’arrivo, procedura standard per determinare la diagnosi, se risultasse positivo potrebbero decidere di spostarlo in uno dei cinque ospedali covid-19.
La cosa che mi stupisce di più è che non tutte le persone sono informate, soprattutto riguardo la sintomatologia.
“Le persone che ci chiamano sono terrorizzate da questo virus. I ragazzi più giovani capita che in ambulanza si scattino un selfie con la mascherina chirurgica e i guanti. Ma la cosa che mi stupisce di più è che non tutte le persone sono informate, soprattutto riguardo la sintomatologia. Qualche giorno fa ha chiamato una signora sulla sessantina, convinta di avere il coronavirus presentando tra i sintomi solo una congiuntivite. Ovviamente io non posso non portare in ospedale una persona, se vuole andarci, ma in questo caso ho cercato di spiegare la situazione alla signora che poi ha deciso di non venire in ospedale. C’è grande psicosi, servirebbe una comunicazione più adeguata”.