“Può darsi che un racconto come questo provochi irritazione o repulsione, che sia tacciato di cattivo gusto. Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla”. E a scriverla è una delle voci più acute del panorama culturale francese, Annie Ernaux, nel suo memoir L’evento, in cui racconta della sua interruzione di gravidanza. “Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne”. In quelle poche decine di pagine, l’autrice restituisce i giorni e le tappe di “un’esperienza umana totale”: dalla scoperta della gravidanza fino alla disperata ricerca di aiuto, trovato alla fine nelle mani della mammana. Un resoconto lucido, irrefutabile di ciò che ha significato abortire clandestinamente. Erano anni in cui l’aborto era illegale in Francia e molti altri Paesi occidentali. “Anni che paiono lontanissimi”, scrive Gianni Montieri su “minima&moralia”, “eppure vicini come sappiamo perché le leggi nulla possono con la retrocessione sociale, contro i diritti che vengono occultati da politici di basso livello, da medici che dimenticano la loro missione e obiettano. Il 1964 è oggi dove molte donne devono nascondere l’aborto come una vergogna, sprecare tempo, fatica, facendosi umiliare cercando un ospedale dove la legge sia rispettata, il 1964 è oggi dove le donne spesso ricorrono come allora all’aborto clandestino”.
“Se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne”
L’aborto viene spesso affrontato nel dibattito pubblico sotto il profilo morale. Si tende a tralasciare che questo è e rimane un atto molto concreto, vissuto spesso in solitudine, senza sapere a chi rivolgersi prima, di cui dimenticarsi in fretta poi. E il profondo senso di solitudine, che è ciò che più sconvolge della storia della scrittrice francese, cinquant’anni dopo, sembra della stessa matrice di quello descritto da Orsola Severini, scrittrice di una generazione diversa, che ne ha parlato nel suo primo libro, Il consolo.
Nell’intervista esclusiva che ha concesso a “Senti chi parla”, Orsola Severini spiega: “Penso che pochissime persone sappiano concretamente cosa succede al corpo di una donna. Io stessa prima di trovarmi in quella situazione non sapevo. Quindi credo sia importante raccontarlo, parlare di casi concreti”. Quando ha scoperto al terzo mese che “il feto aveva una patologia tale che la gravidanza si sarebbe interrotta probabilmente da sola, ma non si poteva prevedere quando”, per lei è stato uno shock. “Sono caduta dalle nuvole perché questo bambino lo volevo”. A quel punto “c’erano due cose: da una parte il dover eseguire questo intervento il prima possibile perché più il feto cresceva più poteva essere rischioso, avrebbe potuto soffrire, e poi c’era un rischio grave anche per me. La seconda cosa è stata la mancanza totale di informazioni e un grande senso di solitudine”. Perché la “ginecologa che mi aveva seguito nelle gravidanze precedenti – che mi aveva consigliato di aspettare – mi ha praticamente mollata, mi ha abbandonata”. “Quindi ho girato da sola per ospedali”, prosegue Severini. “Ho bussato al pronto soccorso ostetrico di un grande ospedale romano e mi hanno mandato via dicendo che c’era un solo medico che fa queste cose – senza neanche pronunciare le parole ‘interruzione di gravidanza’ – ma in quei giorni non c’era. Mi hanno detto che non potevano aiutarmi e che non sapevano dove potessi andare. Ho continuato a cercare, senza la lucidità che avrei avuto in un’altra situazione, e quando finalmente ho trovato un ospedale si è aperto un altro mondo”.
“Penso che pochissime persone sappiano concretamente cosa succede al corpo di una donna. Io stessa prima di trovarmi in quella situazione non sapevo. Quindi credo sia importante raccontarlo, parlare di casi concreti”
Cosa accade dietro quella porta
In Italia, il diritto all’interruzione di gravidanza – volontaria, per motivi legati alla scelta o alla salute della donna, o terapeutica se la gravidanza o il parto mettono in pericolo la vita della donna oppure per rilevanti anomalie o malformazioni fetali – dovrebbe essere garantito dalla legge 194 del 1978 che, all’art. 9, recita: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare […] l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza”, delegando le singole Regioni affinché ognuna ne controlli e garantisca “l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”. Così non è. Dalla promulgazione della legge – avvenuta quasi mezzo secolo fa – la denuncia di carenze e difficoltà nell’accesso ai servizi di interruzioni di gravidanza e gravi mancanze nell’applicazione della legge non si è mai arrestata. Alcune questioni, più di altre, dominano il dibattito pubblico: tra queste l’obiezione di coscienza come causa delle carenze strutturali di personale sanitario preposto a tali interventi.
Al fine di fotografare la situazione in Italia relativa all’interruzione di gravidanza, ogni anno il Ministero della salute è tenuto a presentare al Parlamento la Relazione sull’attuazione della legge 194/78. Fotografia “sfocata”, la definiscono Chiara Lalli e Sonia Montegiove dell’Associazione Luca Coscioni. Vediamo perché. L’ultima relazione, pubblicata lo scorso settembre, si riferisce ai dati del 2019 e a quelli preliminari del 2020. Il rapporto evidenzia che il ricorso all’interruzione di gravidanza (nel 2019 sono state notificate 73.207 interruzioni volontarie) è in diminuzione rispetto ai dati del 2018: in tutte le aree geografiche, in tutte le classi di età, tra le minorenni, tra le donne con precedente esperienza abortiva e anche tra le straniere residenti.
“Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare […] l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza”
Abbiamo chiesto in un’intervista esclusiva per “Senti chi parla” a Silvana Agatone, presidente di Laiga (Libera associazione italiana ginecologi non obiettori per l’applicazione della 194), di spiegarci questi dati e se essi riflettano o meno la realtà. “Quello che noi troviamo in trincea è diverso da quello che c’è scritto nella relazione. In trincea noi ospedalieri vediamo grosse problematiche. Questi dati ci dicono quale sia l’offerta di interruzioni, ma non ci dicono nulla su quale sia la domanda”. Il punto fondamentale, spiega Agatone, è come viene fatta questa relazione: viene redatta sulla base delle interruzioni notificate dai ginecologi che, per ogni intervento, compilano un modulo destinato all’Istat e all’Iss. “Per esempio, a Trapani, fino a poco tempo fa, c’era un solo medico che si occupava delle interruzioni, ne eseguiva circa 80 al mese, quindi inviava 80 moduli. Poi è andato in pensione e il servizio è stato chiuso, finché non c’è stata una forte mobilitazione popolare. Fino a quel momento, le 80 donne che costituivano la domanda non sapevano a chi rivolgersi, perché il numero di posti letto nelle altre strutture era rimasto invariato”. Inoltre, come è accaduto anche in Molise, “i medici non obiettori stanno andando in pensione e non si fanno concorsi appositi per permettere al personale di essere implementato. La situazione negli ospedali è drammatica. Dalla relazione emerge che, sì, sono diminuiti gli interventi, ma perché sono diminuiti gli operatori o perché è diminuita la domanda? Non lo sappiamo. Quindi i dati che ci riferiscono che le interruzioni sono diminuite sono da prendere con le pinze, perché possono lasciare spazio a diverse, opposte interpretazioni. Potrebbe essere vero ma non lo sappiamo con certezza, perché diminuendo gli operatori è chiaro che diminuiscono le possibilità di interventi offerte. Benché questa sia un’ottima relazione, molto puntuale, ha quindi un grande limite: questa mappa non riesce a rappresentare veramente la realtà dei fatti in Italia”. Laiga, a tal proposito, ha messo a punto la prima mappa completa degli ospedali italiani che offrono il servizio di interruzione di gravidanza per migliorarne l’accesso, per offrire un aiuto concreto alle donne.
“Dalla relazione emerge che, sì, sono diminuiti gli interventi, ma perché sono diminuiti gli operatori o perché è diminuita la domanda? Non lo sappiamo”
Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, seppure la relazione evidenzi che gli interventi sono diminuiti rispetto al 2018, è bene sottolinearne il peso: nel 2019, nel presidio in cui si offriva il servizio di interruzione, i ginecologi obiettori erano il 67 per cento (gli anestesisti il 43,5 per cento e il personale non medico il 37,6 per cento) e in alcune regioni quali Campania, Basilicata, Puglia e Molise, questo valore ha superato l’80 per cento. In Sicilia l’85 per cento. In alcune realtà, tra cui il comune di Ciriè nel Torinese, non è permesso interrompere la gravidanza perché il 100 per cento dei ginecologi è obiettore. Ma la questione è più delicata e complessa e non si esaurisce nella misura di pochi dati, ne parleremo quindi in un prossimo approfondimento. Inoltre, la pandemia di covid-19 ha ampliato le lacune esistenti nell’accesso ai servizi per l’aborto in Italia e in tutta Europa, come evidenzia il “British Medical Journal”. Tuttavia, nella relazione pubblicata dal Ministero della Salute non sembrano emergere criticità: “Tutte le regioni hanno reagito prontamente alla situazione e i servizi hanno riorganizzato opportunamente i percorsi di interruzione”. Ma Laiga, nelle parole della dottoressa Agatone, smentisce che sia così: “Durante il lockdown tutti i consultori sono stati chiusi e soltanto dopo numerosissime pressioni da parte dell’associazione si è ottenuto, oltre alla riapertura di alcune strutture, che gli interventi di interruzione fossero considerati urgenti. Alcuni sono ancora chiusi e non sappiamo se e quando riapriranno”.
Narrazioni diverse
Durante una presentazione del libro di Orsola Severini a Bruxelles, l’autrice ha raccontato che ha avuto l’occasione di incontrare donne con esperienze e vissuti differenti. Per una di queste, tra il pubblico, l’esperienza abortiva aveva avuto un solo dolore. Spiega Severini che invece nella sua esperienza “si sono sommati due dolori: il dolore della scelta, che è inevitabile, e quello dovuto all’impressione che non c’è nessun aiuto. Per la donna di Bruxelles, che è stata ‘coccolata’, i medici e il personale sanitario sono stati invece di supporto, ha avuto anche una psicologa”. Quando è accaduto a lei, invece, racconta che le è stata rifiutata anche la richiesta di avere accanto a sé il marito e la madre durante il ricovero. “Quando partorisci un bambino sano, quando va tutto bene, c’è tutta questa retorica del papà in sala parto che deve assistere ed essere presente al taglio del cordone. Poi quando le cose si mettono male diventa un problema solo della donna”. Ma anche molte donne che non hanno vissuto l’esperienza della maternità hanno contattato l’autrice perché, dicevano, “Non ho figli ma mi sono identificata nella tua storia”. Questo – afferma Severini – “penso che sia un altro aspetto interessante della nostra società, per chi non ha avuto figli, per scelta o no, si trova sempre dietro una sorta di inadeguatezza. Come se questo tema della maternità o della non maternità fosse in qualche modo un po’ irrisolto, o che si viva la paura di essere giudicate. Credo che sia importante parlarne per fare rete tra noi e riappropriarci di questo racconto”.
“Credo che sia importante parlarne per fare rete tra noi e riappropriarci di questo racconto”
Diverso il caso in cui la decisione di interrompere una gravidanza sia volontaria. Questa, scrive Claudia Torrisi su “Valigia Blu”, non è “un monolite uguale per tutte le persone: ce ne sono alcune che affrontano l’aborto con grande sofferenza”, soprattutto quando si tratta di un’interruzione terapeutica di una gravidanza desiderata. “Ce ne sono altre che lo fanno con un altro stato d’animo: non vogliono essere madri, non vogliono esserlo ancora, non vogliono esserlo in quelle particolari circostanze. Ma nel dibattito pubblico non sembra esserci spazio per esperienze diverse”. Come si legge su “Hypatia: A Journal of Feminist Philosophy”, “le storie che raccontiamo sull’aborto sono spesso raccontate per recuperare moralmente la condizione della donna che abortisce, attraverso la tragedia”. Dunque riappropriarsi dello spazio di dialogo per poter raccontare ognuna la propria storia. A causa dello stigma, la maggior parte delle esperienze abortive non vengono raccontate. Severini per esempio ricorda che “Le persone che erano intorno a me dopo questa esperienza mi dicevano ‘Non ci pensare, vai avanti’, come se non se ne dovesse parlare. Io ho avuto la reazione opposta, ho avuto bisogno di parlarne”. Prima di lei Annie Ernaux scriveva “che la clandestinità di chi ha vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta”, riportando alla luce non soltanto il suo passato, ma una ferita collettiva. Le donne “vengono fatte sentire isolate anche se una su tre ha un aborto nel corso della vita” scrive Tania Zaparaniuk in un articolo di qualche anno fa su “Cosmopolitan”. “Molte donne, come me, scelgono l’aborto perché non vogliono ancora avere figli. Altre donne non vogliono figli, punto. Alcune li vorrebbero disperatamente, ma scoprono durante la gravidanza che il feto non sopravvivrà. Altre donne, già madri, sanno di non potersi permettere di crescere altri figli. Le decisioni, le esperienze e le ragioni che orbitano intorno all’aborto sono tanto diverse quanto lo sono le donne che decidono di abortire. Ma lo stigma, anche se in misura diversa, è qualcosa che tutte abbiamo in comune”.