La difficoltà a reperire semaglutide nelle farmacie italiane durerà almeno per tutto il resto del 2023. Lo ha comunicato l’Agenzia Italiana del Farmaco in una nota pubblicata a inizio marzo. Semaglutide, venduto con il nome commerciale di Ozempic e prodotto dall’azienda danese Novo Nordisk, è un farmaco per la cura del diabete di tipo 2 che permette di aumentare la concentrazione di insulina nel sangue, aiutando a controllare la glicemia. Ma il farmaco funziona molto bene anche per dimagrire, come hanno osservato i ricercatori durante gli studi condotti per verificarne l’efficacia sulla iperglicemia. La metà dei pazienti inclusi nello studio ha infatti sperimentato una riduzione di circa il 15% del peso corporeo iniziale grazie all’assunzione di semaglutide e grazie agli interventi sullo stile di vita congiunti. È bastato poco quindi all’azienda produttrice per richiederne l’approvazione anche per un uso off label, ovvero fuori dalle indicazioni.
In poco tempo, a partire dagli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, semaglutide è diventato introvabile. Fatto questo reso possibile anche grazie al passaparola su TikTok – l’hashtag #ozempic ha al momento quasi 2 miliardi di visualizzazioni – e alle ammissioni pubbliche di personaggi noti come Elon Musk – che a suo dire lo usa per “tenere lontano” il cibo. Come confessa chi lo ha provato, semaglutide si è rivelato essere un ottimo rimedio anche per tenere a bada quel fastidioso “food noise”, quella sorta di rumore di fondo che ronza nella testa di molte persone ossessionate dal pensiero di cosa mangeranno quel giorno, per cui non esiste una definizione clinica e che potrebbe essere spiegato come “la risultante di fattori genetici, esposizione ambientale e abitudini apprese”. Accade qualcosa di simile anche a chi soffre di dipendenze comportamentali: ci sono state molte segnalazioni, tra chi assume questi medicinali, riferite alla perdita di interesse per le bevande alcoliche o per lo shopping compulsivo – si legge sulla rivista New Scientist. La spiegazione non è nota, non ci sono ancora dati per confermare questi aneddoti, ma potrebbe essere collegata al modo in cui questi farmaci per dimagrire agiscono sul cervello per ridurre il desiderio di mangiare.
Semaglutide sta rapidamente guadagnando popolarità sui social media anche tra le donne con sindrome dell’ovaio policistico. Tale crescente interesse, a quanto leggiamo su The Lancet, “è sintomatico della terribile mancanza di cure appropriate ed efficaci” per le donne che soffrono di questa condizione e, aggiungono gli autori, “dovrebbe essere fonte di preoccupazione per chi lavora in sanità poiché l’interesse e la domanda per l’uso off label e senza supervisione di questo farmaco stanno aumentando”. Insomma, sempre più persone ne fanno richiesta perché sempre più persone ne hanno bisogno. Anche se gli effetti collaterali non sono da sottovalutare e l’effetto dura poco, quasi sempre svanisce quando si smette di assumere il farmaco: generalmente le persone riguadagnano la maggior parte dei kg persi nel giro di un anno.
È un fenomeno anche europeo, quello che vede l’obesità raggiungere dimensioni epidemiche: dal 1975 al 2016 la prevalenza dell’obesità in Europa è aumentata del 138%. Non sentiamoci esclusi quindi dalle statistiche che vedono quasi il 60% degli adulti e 1 bambino su 3 in Europa in sovrappeso o affetto da obesità. In Italia, secondo i dati dell’Italian barometer diabetes observatory foundation, nel 2021 erano 23 milioni gli adulti obesi o in sovrappeso, il 46% della popolazione. Le stime scendono, ma non di molto, tra bambini e adolescenti: il 26,3% è nella stessa condizione. I dati che si riferiscono all’Europa provengono dal Report sull’obesità del 2022 redatto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che, tra le altre cose, raccomanda interventi e strategie per contrastare quella che è stata definita un’epidemia.
I governi europei sono esortati dall’Oms a intraprendere una serie di interventi, che The Lancet Regional Health – Europe sintetizza così: tassare le bevande zuccherate, ridurre la commercializzazione di alimenti non salutari per i bambini, obbligare le aziende a rendere ben visibile sulla parte anteriore della confezione i valori nutrizionali e migliorare l’accesso ai servizi di gestione dell’obesità nell’ambito dell’assistenza sanitaria di base. In Olanda questo approccio sembra funzionare: in tre anni di attuazione dell’iniziativa Amsterdam Healthy Weight Approach, la prevalenza dell’obesità e del sovrappeso infantile è sembrata diminuire del 12%. Tra gli interventi messi in atto dal governo olandese ne segnaliamo qualcuno che forse potrebbe essere messo in pratica perfino domani: vietare succhi di frutta nelle scuole, collocare fontane d’acqua in tutta la città, organizzare corsi di cucina, non permettere alle aziende di fast food di sponsorizzare eventi cittadini e sovvenzionare attività per le famiglie a basso reddito.
Sembra semplice. Tuttavia, uno dei limiti principali all’attuazione di queste politiche sta nel persistere della tesi secondo cui “la lotta all’obesità è responsabilità del singolo individuo e non della società in generale, compresi i governi”. A ben guardare, le diete, i farmaci e le soluzioni “veloci” a poco – o nulla – servono se l’industria alimentare muove in direzione opposta dal miglioramento delle condizioni di salute della popolazione globale.
Ne parlano, tra gli altri, Luca Iaboli e Adriano Cattaneo, membri del gruppo Nograziepagoio, che produce e diffonde informazioni sui conflitti d’interesse, indipendenza e trasparenza in ambito sanitario. In un articolo di qualche tempo fa mostrano puntualmente quanto l’influenza delle grandi industrie di cibo e bevande si muova su vari livelli, attraverso il supporto finanziario a organizzazioni accademiche e associazioni di settore come la American Society of Nutrition, oppure tramite il finanziamento della ricerca scientifica e la partecipazione ai tavoli di discussione e organizzazione delle politiche internazionali di salute pubblica. Per farla breve, sebbene varie revisioni sistematiche abbiano mostrato quanto il consumo di bevande zuccherate e cibi ultra-processati sia correlato all’obesità, le azioni di mitigazione che i governi possono apportare poco possono contro le aziende che questi alimenti li producono. “Poiché i cibi processati rappresentano l’80% delle vendite globali e le dieci grandi multinazionali di cibo e bevande – le cosiddette Big Food e Big Drink – sono parte di un’industria valutata in 7000 miliardi di dollari e un settore che rappresenta circa il 10% dell’economia globale, appare ovvio che queste aziende abbiano tutto l’interesse a dimostrare che l’epidemia di obesità non sia causata dai loro prodotti”. Parliamo di determinanti commerciali di salute, a cui The Lancet ha dedicato una serie con lo scopo di fornire una definizione – sì, ancora non c’è consenso su questo – e una cornice di contesto per comprenderne l’impatto, oltre che proporre una serie di azioni e interventi per affrontare il problema. Ne abbiamo parlato anche noi di Senti chi parla in due articoli di questa serie, uno sulle bevande zuccherate e uno sul vino.
Quindi, tornando a semaglutide, il vero problema del farmaco è che può portare ad alleggerire la pressione morale sui veri responsabili: l’industria alimentare. Appesantendo così il carico di responsabilità individuale della singola persona malata di obesità. La risposta non deve essere a carico del portafoglio del singolo – il farmaco in Italia costa 177 euro, negli Stati Uniti 5 volte tanto – deve, e può, essere collettiva.