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Hater e VIP malati, da dove nasce tanto odio?


Quando il celeberrimo influencer, rapper, produttore musicale e personaggio televisivo Fedez ha annunciato con un video sui social dapprima di avere un non meglio specificato “grave problema di salute” e poi di esser stato ricoverato all’Ospedale San Raffaele di Milano per la rimozione di un tumore neuroendocrino del pancreas, la reazione di centinaia di migliaia di fan, colleghi, amici e semplici estranei è stata perlopiù di vicinanza commossa e solidarietà. Ma – incredibilmente – non sono mancati centinaia di messaggi di odio, con maledizioni, infami manifestazioni di giubilo per la sua malattia e così via. Non è purtroppo un caso isolato, sia nel mondo sia nel nostro Paese.

La povera Nadia Toffa, Emma Marrone, Viola Valentino, Sabrina Paravicini, Valentina Vignali sono solo alcuni dei personaggi famosi che si sono trovati o si trovano ad affrontare la battaglia contro una grave malattia ma anche contro la cattiveria degli hater. La Vignali – giocatrice di basket, modella e personaggio televisivo – quando ha annunciato di avere un tumore della tiroide ha ricevuto lo stesso ignobile trattamento: “Mi hanno scritto tra le altre cose: Ti sta bene che hai avuto il cancro, smettila di giocare che fai schifo. Agli odiatori dico sono degli imbecilli e quando ricevo messaggi del genere io denuncio”. Perché avviene tutto questo? Perché un’impiegata, un tassista, una studentessa, un idraulico, una insegnante o un ingegnere (sono solo degli esempi), insomma delle persone qualunque sentono il bisogno irrefrenabile di andare sulla bacheca social di un cosiddetto VIP malato di tumore per insultarlo? Perché attaccare con tanto livore un personaggio che non ha mai avuto a che fare con loro o con le loro famiglie e non svolge un’attività professionale che in qualche modo possa averli danneggiati (come potrebbe succedere con un politico)? Da dove nasce la cupa rabbia che li spinge a provare un tale risentimento e per giunta a scrivere messaggi pubblici di odio?

“Ti sta bene che hai avuto il cancro”

Il vecchio adagio popolare secondo il quale alla base di comportamenti del genere ci sarebbe l’invidia viene tutto sommato confermato anche dai molti studi clinici che hanno indagato le cause del cosiddetto “hate speech”, ma gli studiosi hanno rinvenuto negli hater anche tracce di psicosi vere e proprie. Uno studio dell’Università polacca di Wrocław coordinato da Piotr Sorokowski ha determinato un “background psicologico” tipico degli hater da social network, marcando una netta differenza tra chi si “limita” a trolling o cyberbullismo e gli hater veri e propri. Mediante il Questionario Dark Triad, la Satisfaction with Life Scale, la Scale of Frustration e la Scale of Envy i ricercatori hanno dimostrato che le persone con punteggi di psicopatia e invidia più elevati hanno una probabilità significativamente più elevata di comportarsi da hater sui social network. Secondo lo psicanalista Vittorio Lingiardi “i social sono diventati una piattaforma dove poter evacuare le proprie “scorie psichiche”, ovvero un luogo dove dar libertà a ogni pensiero che può balenare nella testa di una persona, senza utilizzare alcun filtro. La violenza digitale è diventata ormai una forma di bullismo senza esposizione fisica”. Giovanni Ziccardi, professore di Informatica Giuridica alla Statale di Milano, nel suo libro L’odio online propone una distinzione fra violenza verbale e ossessioni in Rete: “Da una parte c’è l’hate speech, originato da cose importanti come razza, religione e credo politico, dall’altra c’è quello che io chiamo odio interpersonale, scaturito, invece, da cose banali, come per esempio l’elezione di Miss Italia o l’Oscar a Di Caprio”.

“I social sono diventati una piattaforma dove dar libertà a ogni pensiero che può balenare nella testa di una persona, senza utilizzare alcun filtro”

Nascosta dietro agli hate speech secondo alcuni ricercatori ci sarebbe quella che in gergo tecnico è definita l’Ipotesi Frustrazione-Aggressività. Da quando nel 1939 è stata formulata da John Dollard e Neal Miller, questa teoria è stata applicata e studiata in molti campi, tra cui psicologia, etnologia, sociologia e criminologia. Sebbene ci siano state diverse riformulazioni, aggiunte e modifiche, l’assunto di base dell’Ipotesi Frustrazione-Aggressività è in sostanza che la frustrazione aumenti la tendenza ad agire o reagire in modo aggressivo. Indipendentemente da questi perfezionamenti e modifiche, vi sono ampie prove empiriche dell’esistenza di questo effetto e, nonostante un calo del numero complessivo di pubblicazioni che fanno riferimento ad esso, la teoria ha recentemente trovato nuove applicazioni in aree particolari, come la psicologia dei media.

Un fenomeno non soltanto sociale, quindi, ma anche sanitario, psichiatrico. Il proliferare di espressioni di odio è favorita dall’idea di anonimato e di impunità associata all’utilizzo di internet. Gli autori di hate speech spesso non riflettono sulle possibili conseguenze dei propri atti e non percepiscono il potenziale impatto dei loro messaggi d’odio sulla vita reale delle persone. Diversi studi hanno dimostrato che i cosiddetti “leoni da tastiera” non manifestano in quei termini il loro odio quando sono offline. Ma questo odio, quando è online, trova un terreno fertile nella natura stessa dei social network, nelle dinamiche di rete globale. I cluster di odio interconnessi formano “autostrade dell’odio” globali che, assistite da adattamenti online collettivi, attraversano le piattaforme dei social media, a volte utilizzando “porte secondarie” anche dopo essere state bandite, oltre a saltare tra paesi, continenti e lingue. Spiega N. F. Johnson della George Washington University, che al tema ha dedicato un editoriale su “Nature”, spiegando che l’intervento delle autorità e della censura può addirittura peggiorare le cose: “Se si allontanano gli hater da un’unica piattaforma (come Facebook) alla fine si genereranno “dark pool” globali in cui fiorirà l’odio online. Osserviamo l’attuale rete di odio che si ricabla rapidamente e si autoripara a livello micro quando viene attaccata, in un modo che imita la formazione di legami covalenti in chimica”.

Possibile che la legge sia impotente contro gli hater? Qual è la situazione attuale? Un articolo pubblicato sul periodico “Polizia Moderna” nel 2020 si è occupato del fenomeno: “A livello di UE sono stati recentemente compiuti importanti passi in avanti, a partire dalla sottoscrizione, nel maggio 2016, del “Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento all’odio on line” da parte della Commissione europea e di Dailymotion, Facebook, Google, Instagram, Microsoft, Snapchat, Twitter e YouTube. La sottoscrizione impegna le “aziende informatiche” a reagire con maggiore prontezza per contrastare i contenuti di incitamento all’odio razziale e xenofobo che vengono loro segnalati. (…) A livello nazionale, esistono notevoli difficoltà nel perseguire quei contenuti che, ai sensi della normativa italiana (art. 604 bis cp), configurano una condotta penalmente illecita. In molti casi, infatti, i server dei social network (o dei siti web) sui quali sono presenti contenuti illegali sono allocati in Paesi, ad esempio gli Stati Uniti d’America, che non criminalizzano i cosiddetti “reati d’opinione”, tra i quali vengono annoverati i discorsi d’odio. Ciò scoraggia l’attivazione delle lunghe e costose procedure di “rogatoria internazionale” finalizzate all’acquisizione all’estero dei necessari elementi di prova, atteso che l’esperienza operativa ha fatto ripetutamente riscontrare il rigetto della richiesta da parte delle autorità giudiziarie di quei Paesi”.