Le diseguaglianze tra uomini e donne sono sociali, sanitarie, culturali, etiche, religiose, economiche. Il “genere” all’interno di tale complessità è ormai riconosciuto tra i fattori che determinano la salute, ponte tra i fattori sociali e quelli sanitari. Heather Bowerman, fondatrice e Ceo della DotLab, azienda che si occupa di medicina personalizzata per la salute della donna, sembra essersi scontrata con questo muro d’inequità già all’inizio della sua brillante carriera.
In un appassionato, anche se a volte un po’ ingenuo, TEDx si scaglia contro quei pregiudizi, ancora duri a morire, che fanno sì che la Gender Medicine stenti a decollare.
Negli ultimi vent’anni la Medicina di genere ha suscitato un interesse crescente anche se non è sempre ben compresa nel suo reale significato e dimensione. Medicina di genere, infatti, non vuol dire solo porre l’attenzione del mondo scientifico sulle patologie che incidono più frequentemente nell’uomo o nella donna, oppure sulle patologie legate al sistema riproduttivo, o sulla salute delle donne.
Medicina di genere significa comprendere in che modo le malattie di tutti gli organi e sistemi si manifestino nei due generi e, soprattutto, valutare le differenze di genere rispetto ai sintomi, alla necessità di differenti percorsi diagnostici e interpretazioni dei risultati, alle differenze nella risposta ai farmaci o, addirittura, alla necessità di utilizzare farmaci diversi. La Medicina di genere non è, quindi, una nuova specialità ma una necessaria e doverosa dimensione interdisciplinare della medicina. Come ben illustrato in questo speciale di eColloquia, riguarda dunque innumerevoli aspetti, come l’influenza del sesso e del genere sulla fisiologia, fisiopatologia e patologia umana.
La prassi medica è fondata su prove ottenute da sperimentazioni condotte quasi esclusivamente su un solo sesso, quello maschile.
“All’inizio del terzo millennio sembra impossibile che sia ancora necessario colmare una lacuna così grande, eppure tutta la prassi medica ormai codificata da importanti linee guida è fondata su prove ottenute da grandi sperimentazioni condotte quasi esclusivamente su un solo sesso, quello maschile”, lamenta Bowerman. Tanti, troppi, i pregiudizi che portano all’esclusione e alla sottorappresentazione delle donne negli studi clinici.
Ad iniziare dalla cosiddetta cecità di genere (gender blindness), ossia l’assunto che, al di fuori della sfera sessuale, l’uomo e la donna siano molto simili. Continuando con motivazioni di natura etica, dettate dal timore che le donne sottoposte a sperimentazione possano andare incontro a gravidanza, compromettendo la salute del feto o del nascituro.
E poi, ovviamente, ci sono i fattori di tipo economico, poiché la ricerca di genere sarebbe più complessa e più costosa a causa delle importanti e continue variazioni dei parametri fisiologici della donna, la cui complessità ciclica mal si adatta ai modelli standard tradizionali degli studi sperimentali. “La partecipazione delle donne agli studi è invece necessaria perché la loro esclusione, derivante da un atteggiamento che erroneamente potremmo definire protezionistico, non risolve gli eventuali problemi di sicurezza ed efficacia, ma semplicemente ritarda la loro soluzione al periodo successivo all’introduzione del farmaco sul mercato”, ricorda Bowerman. Con conseguenze talora gravi.
È ormai assodato che esista una differenza di genere nella risposta alle terapie, e che gli eventi avversi provocati dai farmaci siano più frequenti nelle donne. Molti parametri fisiologici – altezza, peso, percentuale di massa magra e grassa, quantità di acqua, Ph gastrico – sono differenti nell’uomo e nella donna e questo condiziona l’assorbimento dei farmaci all’interno dell’organismo, il loro meccanismo di azione, la quantità effettiva di farmaco assunta e la successiva eliminazione. Nonostante queste variabili, il dosaggio dei farmaci nella sperimentazione clinica è definito su soggetti di sesso maschile e di conseguenza, non è calibrato per il corpo di una donna.
Un ulteriore passo avanti in questo percorso richiede quindi un cambiamento che non riguardi soltanto la prassi clinica, quanto piuttosto l’approccio metodologico stesso della ricerca scientifica, a partire dagli studi diretti a valutare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci.
Quando emergono, le differenze devono essere dichiarate e vanno prodotte indicazioni sul come gestirle.
L’arruolamento delle donne nei protocolli sperimentali è una condizione necessaria ma non sufficiente per arrivare all’equità della cura: è infatti necessario anche che il disegno degli studi clinici preveda sempre un’analisi di genere.
Nel disegno è opportuno considerare le varie categorie di donne e l’interazione età-genere poiché le differenze di genere possono essere età-dipendenti e sono già presenti durante lo sviluppo embrionale. “Trasparenza”, chiede Bowerman. “Quando emergono, le differenze devono essere dichiarate e vanno prodotte indicazioni sul come gestirle”.
La strada è aperta, ma ancora in salita.
La stessa comunità scientifica subisce ancora fin troppi condizionamenti legati al genere. Nonostante l’incremento del numero di donne medico e dell’ancor più elevato numero delle donne che si iscrivono alla Facoltà di medicina, si è ben lontani da una concreta parità di diritti tra ricercatrici e ricercatori in ambito medico-scientifico. Non v’è dubbio che l’obiettivo da raggiungere sia arduo e che debba articolarsi su più fronti. L’universo maschile anche nell’ambito della medicina accademica e nella produzione e divulgazione della ricerca è in una posizione di enorme vantaggio. Pochi gli articoli a firma di donne, poche le prime firme femminili, molti gli ostacoli che frappongono alla carriera delle donne, non ultimo la maternità.