A lungo il manicomio è stato un mezzo per medicalizzare e diagnosticare gli ‘errori della fabbrica umana’, attraverso l’eliminazione dalla società delle anomalie. Per esempio, l’adulterio fino al 1968 era in Italia un reato ed era motivo sufficiente per finire rinchiuse. Per le donne poi motivi per essere internate – in particolare durante il fascismo, periodo in cui il concetto di devianza si ampliava per rispecchiare la morale – lo erano anche l’essere libertine, poco propense al ruolo di moglie o madre o l’aver osato ribellarsi alle violenze inflitte dal marito tra le mura domestiche.
Ma non solo. Anche l’essere povere o indifese a quel tempo poteva esporre la donna al rischio di essere internata. A finire in manicomio infatti erano quelle donne che non si adeguavano alla morale del tempo, spesso vittime di un trauma o di un abuso sessuale. Loquace, euforica, lasciva, smorfiosa, impertinente, piacente… questi erano gli aggettivi atti a descrivere la sintomatologia delle donne che venivano rinchiuse nei manicomi. Donne che nel caso di Roma – come raccontano le cartelle cliniche raccolte negli archivi del Santa Maria della Pietà – venivano in città come domestiche presso famiglie borghesi.
Loquace, euforica, lasciva, smorfiosa, impertinente, piacente…
Oggi le loro storie sono conservate presso l’ex ospedale psichiatrico romano, negli archivi dell’attuale Museo Laboratorio della Mente. Inaugurato nel 2000, ripercorre la storia dell’Ospedale Santa Maria della Pietà, dalla sua fondazione alla chiusura nel 1999, cinque secoli dopo, come istituto psichiatrico.
Queste stesse storie, Michela Ponzani le ha raccontate nella puntata Cose da matti della trasmissione di Rai Storia Clio. Il filo della Storia del 13 maggio scorso. Nel corso della puntata, Pompeo Martelli, direttore del Museo della Mente, racconta la vicenda di una bella ragazza giovane “che ha un mondo contadino alle spalle, un mondo con una condizione rurale e viene da una famiglia in cui il tasso alcolemico era molto elevato… scolarizzata con la scuola elementare che con il consenso della famiglia decide di venire a lavorare in città come cameriera… domestica a tempo pieno che vive in quella casa”.
“Siamo nel 1964. Lavora lì per circa un anno e mezzo finché improvvisamente, mentre si aggira per la città in uno stato di confusione, di eccitamento… viene fermata dai carabinieri ricoverata presso la clinica neuropsichiatrica dove viene osservata per una giornata per poi essere ricoverata in un ospedale psichiatrico per proseguire l’osservazione”, racconta Martelli.
I sintomi e lo scenario descritto nella sua cartella clinica oggi lascerebbero pensare a un trauma, a una molestia, probabilmente iniziata nella vita domestica e proseguita nella vita lavorativa in maniera più subdola, come ipotizza Martelli. Giunta presso l’Ospedale Psichiatrico, la ragazza inizia il suo percorso di “sedazione, una sedazione costante”. Il manicomio per lei, come per molti prima della riforma Basaglia, assolve a una funzione che non è terapeutica, ma esclusivamente protettiva nel senso di ‘ti impedisco di guardare il mondo fuori’.
“Nelle cartelle”, spiega Pompeo Martelli, “troviamo giovani donne che venivano dalle campagne, con questi fallimenti, con l’incapacità di ritorno nelle campagne, con delle fratture profonde dei legami familiari, con delle fratture profonde dei legami affettivi, con un crollo reale e a volte epocale della speranza, quella di poter progredire, di poter cambiare la propria esperienza quotidiana”.
Da queste storie emerge prepotente quanto la malattia mentale abbia radici profonde nel tessuto affettivo, familiare, socio-economico di riferimento. Queste donne entravano in manicomio spesso per incapacità di resistere in contesti di sopravvivenza al limite. Emarginazione, povertà estrema e assenza di rete sociale.
“(Franco, ndr) Basaglia è stato capace di cogliere questo aspetto”, continua Martelli che sottolinea come Basaglia, con la sua riforma, abbia provato a dire: ‘guardate che questi luoghi di concentrazione non sono protettivi, sono dannosi. Oltre a non far progredire le condizioni di salute mentale delle persone, proteggono la conflittualità sociale che invece deve emergere, perché attraverso una radicalizzazione di questa conflittualità noi possiamo capire quali sono i fattori determinanti della malattia’.
“In un ospedale dove i malati sono legati nessuna terapia di nessun genere – biologica o psicologica – può dare un giovamento a queste persone che sono costrette in una situazione di sudditanza e di cattività rispetto a chi li deve curare”, diceva Franco Basaglia.
Prima di Basaglia tantissime donne sono state internate solo per volontà di un marito.
Prima della Riforma Basaglia, i malati di mente erano “nemici da cui difendersi”. Anomalie da cui proteggere la società. E lo scopo dei manicomi era la “custodia” di questi nemici, devianti, con comportamenti anomali. La legge che precedeva questa riforma considerava i malati come dei carcerati e soprattutto inguaribili. Così racconta Zavoli all’interno delle immagini di repertorio con cui si apre Cose da matti.
La legge che precede la riforma Basaglia venne definita iniqua e antiquata già nel 1911. Eppure, fino al 1968, adultere, prostitute, lesbiche, donne irrequiete, emancipate, dal temperamento ostinato e ribelle, ragazze madri sono tutte presunte anomalie della femminilità da rinchiudere in un manicomio. Prima del 1978 tantissime donne sono state internate solo per volontà di un marito: non erano massaie brave abbastanza o avevano osato sottrarsi alle violenze inflitte in casa. Sorelle di quelle donne che per motivazioni simili oggi finiscono uccise per mano dell’uomo che un tempo le ha amate.
Sono storie che devono aiutarci a riguardare a 40 anni dalla Legge 180, che ha aperto le porte dei manicomi, alla portata rivoluzionaria della Riforma Basaglia. “Una rivoluzione di cui essere orgogliosi” ricorda Valeria Parrella in occasione dell’incontro ‘Rivoluzione Basaglia: il confine non esiste‘, che si è tenuto durante Salone Internazionale del Libro di Torino di quest’anno. “Una rivoluzione che va rinverdicata”.
Una rivoluzione che non va messa in discussione, semmai alimentata per un continuo cambiamento. L’obiettivo deve essere quello di guardare ai luoghi in cui l’esperienza Basagliana è stata messa in pratica, dove la 180 è stata applicata. Fare meglio, nonostante il nostro Ministro degli Interni.
Qui il video di Cose da matti, 13 maggio 2018, Rai Storia Clio. Il filo della storia.
La storia di queste donne è raccontata egregiamente anche nel testo “Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista” di Annacarla Valeriano.