È il 19 febbraio quando Kathy D. Miller, oncologa dell’Indiana University Melvin and Bren Simon Cancer Center, legge un articolo del New York Times che cattura la sua attenzione. La colpisce, in particolare, il titolo: “I dottori dicevano che l’immunoterapia non l’avrebbe curata dal cancro. Si sbagliavano”. L’articolo, a firma di Gina Kolata, racconta la storia di quattro donne affette da una forma incurabile ed estremamente rara di tumore dell’ovaio che, nonostante il parere contrario dei medici e l’assenza di prove scientifiche a supporto di tale scelta, chiedono di farsi curare con l’immunoterapia. E che, in seguito a questa decisione, apparentemente guariscono.
Miller, che si occupa in particolare di tumore del seno e che ogni giorno ha a che fare con donne affette da cancro – e con la loro disperazione – decide allora di sedersi alla sua scrivania e di realizzare un video, pubblicato poi su Medscape, in cui parla di quello che definisce “l’hype dei media sull’immunoterapia”.
In cosa consiste, di fatto, questo tipo di trattamenti? L’immunoncologia è una delle branche più promettenti nell’ambito della lotta contro il cancro. Prevede l’utilizzo di farmaci che stimolano il sistema immunitario a riconoscere le cellule tumorali come estranee e, di conseguenza, ad eliminarle. Generalmente, infatti, i tumori riescono a crescere senza ostacoli perché acquisiscono la capacità di sfuggire ai meccanismi di difesa del nostro corpo.
Efficace nel trattamento di patologie quali il melanoma, il tumore del polmone e quello del rene, l’immunoterapia ha però ottenuto scarsi risultati nell’ambito di forme tumorali più comuni, come il cancro della prostata, del seno e, appunto, dell’ovaio. I benefici ottenuti dalle donne descritte dell’articolo del New York Times sono quindi più che sorprendenti. Ed è proprio Kathy Miller a dirlo: “Questa storia è a dir poco miracolosa”.
L’oncologa, tuttavia, non riesce a non pensare alle potenziali conseguenze di un tale entusiasmo. “Guardate il titolo dell’articolo e immaginatevi di essere un paziente affetto da cancro, o un membro della sua famiglia; non pensereste forse ‘potrei essere io’? Fino a dove viaggereste? A quante persone telefonereste? Quanti soldi sareste disposti a spendere?”. È necessario, spiega Miller, trovare un equilibrio tra entusiasmo e aspettative. Perché l’individuazione di terapie così specifiche non significa automaticamente avere a disposizione trattamenti oncologici più efficaci o con meno effetti collaterali. “Come comportarsi quindi”, si chiede Miller, “per ottenere il supporto necessario per compiere i nostri studi, senza però cadere nell’hype e nella falsa speranza?”. Il rischio, infatti, è che famiglie che vivono situazioni già di per sé disperate decidano di compiere ulteriori sacrifici, anche sostanziali, per farsi prescrivere un farmaco le cui probabilità di successo possono essere estremamente basse.
“L’immunoterapia ha definitivamente cambiato il panorama del trattamento di alcuni tumori”, spiega Miller, “ma per quanto riguarda il cancro al seno, ad esempio, i dati migliori mostrano una risposta positiva solo nel 5 per cento delle pazienti”. L’oncologa fa qui riferimento alle donne affette da carcinoma della mammella triplo negativo (già sottoposte a chemioterapia), dove l’immunoterapia è risultata efficacie solo in un caso su venti. Nelle altre forme di tumori del seno, poi, i dati sono anche peggiori. “Non sto dicendo che questo tipo di farmaci non troverà mai posto nel trattamento di questa patologia, o che non dovremmo lavorare per capire quali pazienti possono trarne maggior beneficio – spiega – ma se vi dicessi che ho a disposizione una nuova terapia che è risultata efficace solo nel 5 per cento delle pazienti, omettendo che si tratta dell’immunoterapia, sareste comunque così entusiasti?”.
Il caso delle quattro donne raccontate dal Nytimes è senza dubbio straordinario e fornirà degli spunti importanti per capire quali caratteristiche, personali e patologiche, si associano a una migliore risposta all’immunoterapia. Tuttavia, suggerisce l’oncologa dell’Indiana University, i media dovrebbero prestare maggiore attenzione alle possibili conseguenze delle loro parole, specie quando si parla della vita di persone già in estrema difficoltà. “Pensate a quel titolo”, conclude, “non dovremmo essere un po’ più cauti quando raccontiamo queste storie?”.
Qui il video dell’intervista.