“L’epatite C causa 400mila morti l’anno nel mondo. È una malattia curabile quindi si tratta di 400mila morti evitabili”. Non fa una piega il ragionamento di Massimo Puoti, primario di Malattie Infettive all’Ospedale Niguarda Cà Granda di Milano. L’occasione per ricordare questi numeri è l’Italian Conference on Aids and Antiviral Research (Icar), quest’anno a Roma per il suo decimo anniversario. Puoti interviene in un simposio dedicato all’eradicazione dell’epatite C. Anche se questo è un termine che non ama, come non ama eliminazione, “perché quello che possiamo realizzare è un contenimento”, spiega.
Un contenimento importante è certo quello che si aspetta entro il 2030 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che ha posto obiettivi molto ambiziosi: ridurre entro quella data dell’80 per cento il numero di nuove infezioni e del 65 per cento quello delle morti e aumentare del 90 per cento le diagnosi e dell’80 per cento il numero di pazienti eligibili per la terapia. Per raggiungerlo si deve passare – e in parte è già successo – “da una prospettiva di trattamento individuale a una che ha come obiettivo il trattamento dell’infezione nella comunità”.
“Nella maggior parte dei paesi del mondo ad alta prevalenza di Hcv”, prosegue l’infettivologo del Niguarda, “la percentuale dei pazienti trattati è inferiore all’1 per cento, solo in alcuni dei paesi come l’Egitto ad alta prevalenza o in altri paesi non ad alta prevalenza come l’Australia e gli Stati Uniti si sta trattando più del 7 per cento dei soggetti infetti”.
Da un punto di vista del trattamento, tuttavia la situazione ha ricevuto una grande spinta dall’arrivo di farmaci in grado di colpire il virus a prescindere dalla sua variante (esistono sei varianti, o genotipi, del virus dell’HCV). Nei paesi in via di sviluppo ad alta prevalenza, poi, è la genericazione dei farmaci che può svolgere un ruolo fondamentale. “Va ricordato che la Gilead ha degli agreement con 11 compagnie indiane e attualmente Sofosbuvir/Velpatasvir così come Sofosbuvir/Ledipasvir (combinazioni di antivirali ad azione diretta) sono a disposizione in 101 paesi in via di sviluppo, questo è sicuramente un contributo fondamentale perché il tasso di trattamento ha nel costo dello stesso un grande limite soprattutto in paesi ad alta prevalenza e questo devo dire è forse uno dei più importanti strumenti per l’eliminazione del virus”.
Anche in Italia l’avvento degli antivirali ad azione diretta ha fatto una notevole differenza. “Per quanto riguarda la prospettiva italiana il tasso di trattamento è molto alto, in Europa siamo uno dei paesi con più pazienti trattati per epatite C, circa 135mila all’inizio di maggio del 2018”. Il tasso di guarigione è superiore al 95 per cento.
Oltre all’accesso al trattamento, c’è tuttavia un altro grande ostacolo al raggiungimento degli obiettivi dell’Oms: individuare quanti non sanno di essere positivi per l’Hcv o, se lo sanno, non sono in cura. In Italia tuttavia non esiste un programma di screening extra ospedaliero: “Esiste un piano nazionale epatite che non è stato finanziato. Adesso si sta per rielaborare questo piano nazionale epatite, e io ho qualche dubbio che otterrà un finanziamento specifico”.
Dovremo in qualche modo portare l’ospedale nel territorio
Secondo il medico, una possibile alternativa è attivare dei programmi locali di micro eradicazione da realizzare possibilmente con tutti gli stakeholder: “Con la politica, con i pazienti, con le associazioni di pazienti, con le case farmaceutiche, seguendo quelle che sono le indicazioni dell’organizzazione mondiale per la sanità”. Fa un esempio pratico Puoti, di una campagna messa in atto qualche anno fa in Val Camonica in associazione ai farmacisti che aiutavano i pazienti a individuare dei fattori di rischio e consigliavano, in presenza di tali fattori, di fare il test. “In Valle Camonica, con questo intervento, su una popolazione di circa 90 mila persone, 56 mila hanno fatto il test per l’epatite C”.
“Ovviamente serve uno screening mirato, non può essere uno screening generalizzato. Dobbiamo raggiungere con questi programmi le popolazioni a rischio, come i pazienti nelle prigioni e le persone che usano droghe per via endovenosa; ma ci sono anche diverse altre categorie su cui lavorare”.
“Una volta che finiremo di trattare tutti i pazienti in lista d’attesa o che arrivano a noi, dovremo in qualche modo portare l’ospedale nel territorio”, conclude Puoti. “Portare questo trattamento anche fuori dagli ospedali e implementare progetti locali o più generali di micro eliminazione con l’aiuto di tutti gli stakeholder. Sono molto pessimista sul fatto che ci possa essere un’implementazione a livello governativo di progetti di questo tipo e quindi, per ora, è tutto lasciato alla nostra buona volontà. Ma abbiamo dimostrato, trattando 135mila pazienti in due anni a risorse zero, che mettendo molta fantasia possiamo raggiungere questo risultato”.