Salute pubblica, infettivologia, pneumologia, medicina d’emergenza. Sono queste le prime aree della medicina che ci vengono in mente quando pensiamo alla pandemia da Covid-19. C’è un altro settore tuttavia particolarmente interessato dal virus Sars-CoV-2: la cardiologia. Sin dalle prime fasi dell’epidemia, infatti, è emerso uno stretto collegamento tra l’infezione da nuovo coronavirus e la salute cardiovascolare.
Già a febbraio, ad esempio, uno studio basato su 1.099 soggetti ricoverati in 552 ospedali cinesi aveva dimostrato che molti dei pazienti con forme gravi di Covid-19 avevano patologie concomitanti quali l’ipertensione, il diabete o una malattia coronarica o cerebrovascolare. A marzo, poi, una nota dell’Istituto Superiore di Sanità sui primi pazienti italiani indicava proprio l’ipertensione e la cardiopatia ischemica come malattie riscontrate più frequentemente nei pazienti deceduti per l’infezione. Nelle settimane successive diverse casistiche hanno confermato questa relazione, dimostrando anche che un’ampia percentuale di pazienti contagiati presenta un danno a livello del muscolo cardiaco o un disturbo aritmico.
I meccanismi attraverso cui il virus Sars-CoV-2 può danneggiare il cuore sono però molteplici e, in alcuni casi, persino paradossali. È quanto emerge da una serie di interviste realizzate dalla testata Cardioinfo.it a diversi cardiologi che lavorano nelle aree più colpite dall’epidemia di Covid-19.
Gli effetti diretti nel nuovo coronavirus sul cuore
Secondo una revisione sistematica pubblicata qualche settimana fa sulla rivista Nature Reviews Cardiology, i modi in cui il SARS-CoV-2 può danneggiare – direttamente – il tessuto cardiaco sono principalmente due. Questi riguardano, da un lato, la risposta infiammatoria messa in atto dal sistema immunitario e, dall’altro, i problemi respiratori causati dall’infezione.
“Si viene a generare un circolo vizioso che parte dall’infiammazione, con il rilascio di citochine ed altri mediatori in un contesto in cui c’è una ridotta capacità di ossigenazione del sangue”, spiega Francesco Bovenzi, Direttore della Struttura Complessa di Cardiologia dell’Ospedale San Luca di Lucca. “C’è un super lavoro del cuore, con un aumento del metabolismo e della frequenza cardiaca, a sua volta associato a un ulteriore dispendio di energie. E, soprattutto, c’è un contesto di tono simpatico aumentato: tutto questo facilita l’instabilità di placche e l’insorgenza di eventi ischemici acuti”.
È stata poi riscontrata una maggiore coagulabilità del sangue. “Uno dei problemi che sta emergendo è un aumento massivo della trombofilia, con la tendenza a fare trombi ed emboli che possono interessare la circolazione coronarica”, racconta Gianfranco Parati, Direttore dell’UO di Cardiologia dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano. “Manifestazioni che possono confondersi in un quadro clinico dove ci sono già difficoltà respiratorie e dolori toracici di altra natura”.
Un nuovo fattore di rischio: la paura del contagio
Il nuovo coronavirus può danneggiare il cuore anche in modo indiretto. Com’è noto, in seguito all’esplosione dell’epidemia molti ospedali sono stati convertiti a centri Covid, interamente dedicati alla gestione dei pazienti positivi al virus. Di fronte a questa esigenza alcuni Sistemi Sanitari Regionali hanno dovuto riorganizzare la propria rete ospedaliera per poter continuare a garantire un certo grado di assistenza ordinaria, specie per quanto riguarda le patologie, come l’infarto, in cui un intervento tempestivo può fare la differenza tra la vita e la morte.
Da subito, però, i cardiologi si sono trovati di fronte a un problema inaspettato: il numero di accessi per eventi cardiovascolari acuti è crollato. “Nelle ultime due settimane si sta assistendo a una riduzione drastica dei ricoveri per infarto”, sottolineava l’11 marzo Gianfranco Marenzi, Direttore dell’Unità di Terapia Intensiva Cardiologica dell’Irccs Centro Cardiologico Monzino di Milano.
Sebbene in un primo momento tale riduzione era stata ricondotta a un possibile effetto minore di fattori stressogeni quali il traffico e l’attività sportiva intensa, o alla difficoltà ad accedere ai numeri di emergenza, successivamente si è capito che nella maggior parte dei casi il calo era legato alla paura di recarsi in ospedale. “I pazienti preferiscono stare a casa coi sintomi invece di venire in Pronto Soccorso, dove la situazione è estremamente grave”, raccontava Michele Senni, Direttore dell’UOC Cardiologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo, a metà marzo.
I pazienti preferiscono stare a casa coi sintomi invece di venire in Pronto Soccorso, dove la situazione è estremamente grave.
Nel giro di qualche giorno sono arrivate le prime comunicazioni da parte delle società scientifiche italiane attive in ambito cardiologico. Un’indagine condotta dalla Società Italiana di Cardiologia su 50 Unità di Terapia Intensiva Cardiologica sparse sull’intero territorio nazionale, ad esempio, ha messo in evidenza una riduzione del 50 per cento degli accessi al Pronto Soccorso per infarto nella settimana tra il 12 e il 19 marzo rispetto allo stesso periodo nel 2019. Qualche giorno più tardi anche la Società Italiana di Cardiologia Interventistica si è espressa sul tema, invitando i pazienti con sintomi tipici dell’infarto a non esitare nel chiedere aiuto.
Nel caso di patologie come l’infarto, infatti, ogni minuto di ritardo può essere determinante. Purtroppo, invece, in questo periodo alcuni pazienti arrivano in ospedale anche tre o cinque giorni dopo la comparsa dei sintomi. “Stiamo assistendo a quello che si vedeva negli anni sessanta, quando non c’erano ancora le angioplastiche primarie, gli interventi acuti e le terapie intensive così diffuse”, racconta Gianfranco Parati. “Vediamo pazienti che arrivano con il cuore che si è spezzato, con un danno tale da non essere più recuperabile”.
Infine, un’altra conseguenza indiretta dell’epidemia di Covid-19 riguarda la gestione delle patologie cardiovascolari sul territorio. Infatti, l’emergenza ha causato la sospensione dell’attività di molti ambulatori di medicina generale e specialistici, privando i pazienti con malattie croniche di punti di riferimento fondamentali. Un problema particolarmente rilevante, ad esempio, per quei pazienti che necessitano di effettuare controlli periodici per calibrare il dosaggio delle terapie. “Non siamo ancora in grado di valutare del tutto le conseguenze, quale sarà l’impatto sulla terapia antipertensiva, antidismetabolica o antidiabetica”, sottolinea Gabriele Catena, Presidente della Società Italiana Scienze Mediche (Sismed).
Anche le fake news possono danneggiare il cuore
A un certo punto, nelle prime fasi dell’emergenza COVID-19 in Italia, alcune ricerche di laboratorio hanno dimostrato che il nuovo coronavirus si serve di una classe particolare di recettori, gli ACE-2, per entrare all’interno delle cellule. Questi recettori, presenti a livello polmonare, cardiaco e renale, fanno parte della stessa classe di enzimi su cui agisce un tipo di farmaci, gli ACE inibitori, utilizzati nel trattamento dell’ipertensione e dello scompenso cardiaco. Sulla base di questa relazione e dell’evidenza dell’elevato numero di pazienti ipertesi tra quelli deceduti per Covid-19, si è ipotizzato che l’utilizzo di questi farmaci potesse aumentare il rischio di contrarre il virus e di andare incontro a prognosi peggiori.
Nel giro di qualche giorno la notizia ha cominciato a girare sui social, spesso con tanto di inviti a sospendere i trattamenti. Il problema, tuttavia, è che non esiste alcuna evidenza clinica circa il possibile effetto negativo degli ACE inibitori sul rischio di Covid-19 mentre è ben nota la loro efficacia nel ridurre il rischio di patologie quali l’infarto e l’ictus. “C’è una valanga di studi clinici che ci dice che nei pazienti con scompenso cardiaco, ipertensione o in generale una cardiopatia, l’azione di questi farmaci è di beneficio”, spiega Parati in un’intervista sul tema.
Non a caso, nelle settimane successive moltissime società scientifiche attive nell’ambito della cardiologia e dell’ipertensione – tra cui, nel nostro Paese, la Società Italiana per l’Ipertensione Arteriosa (Siia) e la Società Italiana di Cardiologia (Sic) – si sono espresse sull’argomento, chiedendo ai pazienti di non sospendere i trattamenti. “La raccomandazione è di continuare la terapia antipertensivasi per far sì che una catastrofe non generi un’altra catastrofe”, spiega Guido Grassi, Presidente della Siia.
Tale indicazione sembra inoltre essere supportata dalle prime evidenze cliniche sulla relazione tra terapia con ACE inibitori e rischio o gravità della Covid-19. Di recente, uno studio condotto su 1178 pazienti positivi al nuovo coronavirus, di cui 362 ipertesi, ha messo in evidenza come tra i pazienti gravi e meno gravi e tra quelli poi sopravissuti o deceduti il numero di soggetti in trattamento con questi farmaci fosse paragonabile. Un altro studio, invece, ha dimostrato che tra i pazienti ipertesi e positivi al nuovo coronavirus il trattamento con ACE inibitori si associa a un tasso di mortalità inferiore.
Il caso degli ACE inibitori dimostra quindi l’importanza della cautela nel pubblicare e commentare i risultati della ricerca scientifica, specie in un contesto emergenziale come quello legato alla pandemia Covid-19. Il coinvolgimento emotivo che lega tutti noi alla situazione in atto determina infatti una sorta di ipervigilanza nei confronti delle notizie riguardanti l’epidemia. Il risultato è che una legittima ipotesi di ricerca può trasformarsi, molto facilmente, in una fake news, con danni potenzialmente enormi.