“È ora che il mondo prenda atto e raddoppi l’impegno. Dobbiamo lavorare insieme in solidarietà con la Repubblica Democratica del Congo per porre fine a questo focolaio e costruire un sistema sanitario migliore”. Con queste parole, lo scorso 17 luglio, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ha dichiarato emergenza internazionale l’epidemia di Ebola scoppiata a maggio 2018 in Repubblica Democratica del Congo che, dal suo inizio nell’agosto 2018 a oggi, ha colpito quasi 2.500 persone, di cui 1.665 sono morte.
La situazione era stata giudicata particolarmente allarmante già nei giorni precedenti dopo il primo contagio avvenuto a Goma, grande città nell’est del Congo. Anche l’Unicef ha lanciato l’allarme dopo che 750 bambini, la maggior parte dei quali sotto i cinque anni, sono stati colpiti dal virus.
Si tratta dell’epidemia peggiore mai registrata nel Paese, la seconda peggiore nella storia della malattia e la prima in un’area di conflitto. “Si vive una situazione di tensione per ragioni anche anteriori ed esterne all’epidemia di Ebola, e che però complicano la risposta. C’è un rischio oggettivo a causa degli attacchi armati, della guerriglia, che comportano una serie di limitazioni al nostro intervento”, ci racconta Chiara Montaldo, coordinatrice medica per la risposta a Ebola per Medici Senza Frontiere (MSF) in Nord Kivu e parte dello staff dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma.
Aggressività, sfiducia e violenza che con l’evolvere dell’epidemia sono state dirette anche contro gli stessi operatori sanitari. La sera del 24 e del 27 febbraio sono stati attaccati e dati alle fiamme i centri di trattamento Ebola di Medici Senza Frontiere a Katwa e Butembo, in Nord Kivu, epicentro dell’epidemia. Qui, negli ultimi sette mesi, sono stati registrati 879 casi confermati e 553 persone sono morte.
“Con Ebola”, continua la dottoressa Montaldo, “ho avuto un’esperienza personale importante perché ho lavorato nell’epidemia del West Africa e nell’attuale epidemia in Congo e mi sembra di aver lavorato in due epidemie diverse. Tra i tanti fattori di diversità forse quello principale è stato proprio la paura che ho avuto mille volte di più adesso che in Guinea nel 2014. E questo non è legato ovviamente alla malattia che è la stessa, ma al contesto. Nel 2014 certo, quando entravi nel centro ci entravi con tutte le preoccupazioni, un minimo di paura c’era ma neanche tanta perché noi sappiamo come prevenire e come gestire la nostra preoccupazione per la malattia. Quello che fa la differenza nell’attuale epidemia è proprio il contesto di guerra. Io l’unica volta nella mia professione che ho avuto paura è stato lì, perché eravamo nel centro la notte che è stato bruciato, con i pazienti dentro, quindi con tutte le difficoltà di evacuare pazienti Ebola”.
Medici Senza Frontiere ha dovuto interrompere immediatamente ogni attività medica nelle province colpite, ma continua a gestire attività legate all’epidemia di Ebola anche a Kayna e Lubéru, in Nord Kivu, e in due centri di isolamento a Bwanasura e Bunia, in provincia di Ituri. La decisione di sospendere le attività non è stata dettata dalla paura, ma dal non voler accettare una protezione armata. Avere dei centri sanitari protetti da gruppi armati, infatti, è controproducente dal momento che allontana le persone dai centri creando ancora di più sfiducia e una scarsa comprensione della malattia.
Quello che fa la differenza nell’attuale epidemia è proprio il contesto di guerra.
“In questi momenti emerge anche la paura di aver sbagliato qualcosa come mondo scientifico perché in questa epidemia paradossalmente abbiamo più armi: abbiamo il vaccino, abbiamo dei farmaci anche se sperimentali, la gestione dei pazienti è migliorata enormemente. Eppure questo non corrisponde a una miglior gestione dell’epidemia. La gente muore, non viene da noi, addirittura ci brucia un centro di trattamento. Ci vorrebbe è un approccio che coinvolga la popolazione nella risposta stessa e non che imponga qualcosa che non viene capito”, afferma Montaldo.
Questa situazione, però, ha tirato fuori anche molto coraggio. Dai pazienti guariti che, nonostante abbiano subito tanto da un punto di vista fisico e psicologico per la malattia, hanno accettato di lavorare nei centri di trattamento, fino allo staff medico congolese.
“Durante il secondo attacco al nostro centro di Butembo”, ricorda il medico, “sono entrate diverse persone armate. Tutto lo staff aveva paura, ma soprattutto noi bianchi perché giravano voci che l’aggressività fosse diretta proprio a noi. Allora i medici locali hanno circondato tutto il personale bianco, come a proteggerlo”.
Mariana Cortesi, infermiera di Medici Senza Frontiere, invece, ricorda particolarmente il coraggio di Augustine, una bimba di 4 anni sopravvissuta a Ebola: “La cosa che mi ha stupito è stato il suo sguardo incuriosito che ci guardava e cercava di analizzare i nostri movimenti. È stata molto coraggiosa perché durante le settimane di degenza ha visto morire la metà dei pazienti che erano nel centro, compresi il papà e il fratello, ma ci faceva un sorriso e cercava di rimanere forte. E quando è uscita dal centro i suoi occhi sono stati veramente la nostra forza”.
Non posso accettare di non fare nulla, non posso accettare di stare con le mani in mano.
Non tutti i bambini sono sopravvissuti e l’infermiera ha dovuto fare i conti anche con questo. Se a volte capitava di trarre la forza da uno sguardo, altre capitava di vederci la paura. “Non riesco a dimenticarmi un bambino arrivato nel centro in condizioni molto critiche. Ho visto la sua paura di morire e mi sono sentita veramente impotente. Questa paura, io sì, l’ho vista negli occhi di molti pazienti. Sono occhi che ti guardano e sanno che è una malattia terribile e non possono fare altro che affidarsi completamente a sconosciuti con delle tutone gialle di protezione dove il contatto non è un contatto normale. E allo stesso tempo ho provato la stessa paura loro ma per loro, perché puoi fare di tutto ma a volte si perdono anche 6 pazienti in un giorno”.
Quando ci sono stati gli attacchi nei centri di Katwa e Butembo Mariana Cortesi non era lì. Quando lo ha saputo è stata invasa da una grande tristezza, ma poi è prevalso il coraggio. “Prima di partire ero terrorizzata perché Ebola l’avevo solo studiata nel mio corso di perfezionamento di medicina tropicale. Il primo giorno, quando entri e cerchi di mettere la tuta, hai paura perché basta un movimento sbagliato, basta che il guanto si sposti durante la svestizione, e rischi la contaminazione. Ma tra due settimane ritorno in Repubblica Democratica del Congo per Ebola perché non posso accettare di non fare nulla, non posso accettare di stare con le mani in mano”.
L’incontro con Chiara Montaldo è avvenuto all’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma con il gruppo Forward e il resto dello staff dell’Istituto. Qui le loro testimonianze.