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Ripartire dal territorio e dalla medicina generale


Una conversazione con Vittorio Fontana
Medico della ASST Nord, Milano
Tra gli autori del libro Emozioni virali. Le voci dei medici dalla pandemia
Il Pensiero Scientifico Editore 2020

Ci sono i giovani sacrificati e alle volte messi subito fuori gioco (un contagio precocissimo preso subito dopo aver messo piede in corsia, per penuria di dispositivi di protezione individuale e per mancanza di tempo nella formazione, per inesperienza). Ci sono i timorosi e pavidi, che fanno finta di essere feriti per farsi congedare e tornare subito a casa. Ci sono quelli troppo sicuri di sé, che dopo essere stati colpiti esclamano con meraviglia: ‘Che stronzo, pensavo di essere immortale!’. Ci sono gli anziani, resi furbi e cinici dagli anni, che sanno come muoversi e lo fanno guardinghi con spirito pratico, salvaguardando loro stessi ma proteggendo anche i propri soldati. Ci sono gli eroi veri, i buoni, che muoiono sul campo. Ci sono le meschinità degli esseri umani, gli egoismi, la furbizia, l’odio, la fame di gloria persino nel fango, nella giungla, nella guerra. Ci sono i rinforzi che tardano ad arrivare oppure continuamente promessi ma che non arrivano mai. C’è il fallimento di una strategia di guerra da parte degli alti Comandi. C’è un nemico furbissimo, che conosce meglio il territorio e si muove meglio di noi.

Chissà in quale di queste “categorie” inserirebbe sé stesso Vittorio Fontana, autore di una sorta di “inventario” che ha un’importanza centrale nel racconto che ha scritto per il libro Emozioni virali, curato da Luisa Sodano e frutto della straordinaria esperienza di un gruppo di quasi centomila medici nato spontaneamente su Facebook. Fontana è medico specialista in Geriatria e dal 2001 lavora nell’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo, nell’hinterland milanese, totalmente trasformato in ospedale covid durante l’emergenza. Di recente e per oltre cinque anni, ha lavorato quasi esclusivamente nel pronto soccorso internistico dell’ospedale Bassini, tanto che durante l’emergenza ha dato disponibilità a tornare in pronto soccorso dove ha poi effettivamente lavorato nel mese di aprile.

L’ospedale del futuro dovrebbe essere più flessibile”, ha spiegato Francesco Enrichens in un’intervista rilasciata al progetto Forward. Ma non è possibile rimodulare spazi, ripensare i percorsi assistenziali e le dinamiche della logistica se chi lavora in ospedale non è capace di mostrare la stessa duttilità. Serve “una cultura più moderna e collaborativa”, dice Enrichens che deve svilupparsi attraverso la relazione tra le reti dei professionisti e grazie ad una formazione che favorisca multiprofessionalità e multidisciplinarietà. Fontana vive la multidisciplinarietà anche in famiglia: la moglie è infermiera all’ospedale San Gerardo di Monza e ha vissuto anche lei in prima persona la stessa esperienza. Hanno un figlio ventunenne che si occupa di ingegneria matematica.

Poche pagine ma intense, quelle di Fontana, che riprendono la metafora di guerra di cui molto si è discusso in questi mesi a proposito della covid-19…Pur non amando la metafora di guerra, ci sono cascato. Ma sono stato lontano dalla celebrazione dell’eroe. Come ha detto Luisa Sodano, curatrice del libro, in un’intervista alla biblioteca Moby Dick, il mio racconto è antieroico. Se vogliamo, però, l’eroe è chi antepone l’interesse degli altri a sé stesso e quindi si getta in una battaglia qualche volta anche mettendo a rischio la propria vita, come è successo purtroppo ad alcuni colleghi ai quali questo libro è dedicato. Il racconto è uscito molto spontaneamente, molto rapidamente: eravamo dei professionisti chiamati a una prova assolutamente nuova, che ci metteva in difficoltà, e cercavamo di fare il meglio che fosse nelle nostre possibilità”.

La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo”, scriveva Susan Sontag in un libro spesso citato durante le settimane di emergenza pandemica. È durata poco la celebrazione dei medici e degli infermieri.Sì è durata poco”, ammette Fontana, “e infatti si tornerà e si è già tornati a una normalità in cui in realtà la gente si aspetta tutto e subito, e vede la salute come una merce qualsiasi. Ho lavorato qualche anno in pronto soccorso dove può capitare che addirittura questa situazione degeneri in atteggiamenti di violenza se non fisica – se non raramente per fortuna – verbale, che rende difficile continuare a fare il proprio lavoro. Quella dei medici eroi era una retorica che come tale si è sgonfiata abbastanza rapidamente, siamo tornati a una normalità che invece speriamo si possa cambiare negli anni”.

Però, in un paese normale la normalità non dovrebbe essere quella del “denuncia day“, come è stato battezzato il 10 giugno 2020, giorno in cui decine di rappresentanti del comitato “Noi denunceremo – verità e giustizia per le vittime del covid-19” hanno depositato un esposto contro ignoti alla Procura di Bergamo. Il gruppo su Facebook ha 55 mila iscrizioni: “Non abbiamo il dito puntato contro i medici che erano in prima linea, anche loro sono vittime. Chiediamo, però, che si accerti la responsabilità di chi ha sbagliato nella gestione dell’emergenza.” In effetti, in battaglia ci sono gli eroi ma anche i disertori, scrive Fontana nel suo racconto. “Diserzione: non tanto da parte di colleghi ma di chi stava in altre posizioni. Come in tutte le situazioni ci sono quelli che sono più coraggiosi, quelli che comunque hanno meno paura. Ci sono anche i paurosi ma è una cosa del tutto legittima – anzi la paura di per sé è un sentimento utile. Poi come sempre, come in tutte le cose umane, c’è chi trova il modo di nascondersi, di non partecipare attivamente quando invece sarebbero chiamati a farlo. In queste situazioni di crisi spesso il meglio e il peggio delle persone vengono accentuate”.

Quella dei medici eroi era una retorica che come tale si è sgonfiata abbastanza rapidamente.

Una paura del tutto comprensibile, soprattutto pensando ai giovani medici o addirittura agli specializzandi mandati in prima linea. “Nel mio ospedale – ma non solo – ce n’era bisogno, sono stati veramente messi all’opera giovani appena laureati o specializzati, spesso volontari che venivano per loro stessa iniziativa. Giovanissimi colleghi che avrebbero avuto bisogno naturalmente di una preparazione adeguata ma non c’erano i tempi per farla”.

A mani nude anche per la mancanza di argomenti con cui nutrire la relazione con i familiari dei malati, per esempio. Domenico Restifo Pecorella, medico neopensionato tornato in ospedale come volontario si è visto affidare il call center e ha tenuto per mesi i rapporti tra pazienti e parenti. Come ha spiegato a Repubblica, una delle telefonate la ricorda molto bene: “Dottore, mio marito è morto tre giorni fa. Come sta mia suocera?”. Risposta: “Purtroppo è terminale”. E la donna, disperata: “Ma se mi ammalo anche io, i miei tre figli minorenni come faranno?

A mani nude per la drammatica mancanza di dispositivi di protezione…Ha pesato tanto. All’inizio i dispositivi di protezione mancavano. Eravamo costretti ad utilizzare le mascherine ffp2 e ffp3 contando il tempo in cui le avevamo utilizzate. Quindi si diceva ‘durano sei o otto ore, quindi tu la usi, visiti un paziente, poi la togli e la metti nel taschino’ calcolando per quanto tempo l’hai utilizzata. La penuria iniziale ha creato problemi. Un problema generalizzato, non soltanto italiano e non soltanto della Lombardia. Poi col tempo, per fortuna, sono arrivate e abbiamo anche imparato a utilizzarle al meglio, cosa che non eravamo così abituati a fare negli ospedali italiani. Anche le procedure di vestizione sono in realtà molto complicate se uno non le ha mai fatte e quindi abbiamo dovuto imparare anche queste. All’inizio credo che molti medici, soprattutto sul territorio, abbiano veramente dovuto lavorare a mani nude senza avere adeguati dispositivi di protezione. Una carenza che ha contato molto sul fatto che si siano ammalati, qualcuno anche seriamente”.

A mani nude anche per la mancanza di linee guida, di percorsi di diagnosi e cura per una malattia sconosciuta.Ciò che si è dimostrato immediatamente come una situazione ricorrente (un vero standard) è stata l’incertezza nella scelta delle cure”, ha ammesso Antonio Addis, della Commissione tecnico scientifica dell’Agenzia italiana del farmaco e del Dipartimento di epidemiologia del Lazio, in un contributo pubblicato da Forward. Così che per vincere la paura occorre mettere in campo il coraggio di fare scelte e di rimetterle continuamente in discussione confrontandosi con i colleghi, leggendo, sfruttando ogni opportunità di dialogo e di valutazione incrociata dell’esperienza.

È stato veramente una delle cose più difficili, non avevamo veramente idea sinceramente di che cosa fosse davvero efficace”, confessa Vittorio Fontana. “Anche adesso non lo si sa con precisione. Da questo è nato il gruppo Facebook, da cui è uscito il libro, per cercare di confrontarci su tutti gli strumenti che potevamo avere a disposizione. All’inizio la cosa che a me faceva più terrore era vedere questi pazienti lasciati a casa con la sola tachipirina, senza avere veramente nessuno strumento terapeutico davvero efficace. Poi forse abbiamo preso un po’ le misure, abbiamo imparato che qualche volta si potevano usare gli antinfiammatori, i cortisonici quando necessario, poi abbiamo imparato a utilizzare l’eparina; dunque, abbiamo preso le misure e siamo andati meglio, ma queste conoscenze sono cresciute nel corso degli eventi”.

Bisogna avere quella giusta dose di diffidenza o essere veramente molto bravi a leggere gli studi clinici.

Nel frattempo, in cinque mesi sono stati pubblicati più di trentamila articoli e documenti e sulle riviste internazionali indicizzate. Quello che la rivista Science ha definito un vero e proprio tsunami di letteratura scientifica ha aiutato o disorientato i medici e gli infermieri che dovevano prendersi cura dei pazienti? “Entrambe le cose. Molti studi erano contraddittori e non si riusciva veramente a giudicarli, anche perché spesso sono complicati e quindi bisogna leggerli con attenzione ma non sempre c’era il tempo. Alle volte, forse perché confermavano nostre idee su come andassero impostati i trattamenti, sono stati utili perché ci hanno ci hanno sostenuto in queste nostre posizioni; altre volte erano talmente contrastanti l’uno con l’altro – e lo sono ancora per quello che vedo – da rendere ancora più difficile prendere delle decisioni”.

Riviste molto note e autorevoli come Lancet e New England Journal of Medicine sono state costrette a ritirare alcuni lavori anche dopo che i risultati degli studi ai quali era stato dato spazio avevano informato delle decisioni di politica sanitaria e regolatoria molto importanti. “Bisogna avere quella giusta dose di diffidenza o essere veramente molto bravi a leggere gli studi clinici, cosa che non fa parte della nostra preparazione” confessa Fontana ammettendo di non essere “così bravo a coglierne tutti gli aspetti: come sono stati costruiti gli studi o i conflitti di interesse che per me sono un argomento molto importante e che vanno sempre tenuti da conto. Sicuramente impareremo a non prendere sempre per oro colato quello che viene da una rivista di prestigio ma che non è per forza garanzia di verità. Però questo fa bene perché porta alla necessità di ragionare sempre su quello che si legge e su quello che viene pubblicato”.

Imparare ad avere uno sguardo interdisciplinare, a lavorare in rete, a costruire ospedali e ambulatori flessibili, a dialogare con i malati (e soprattutto con i familiari) confessando l’incertezza, a valutare criticamente la letteratura scientifica. “Ma anche che non si può pensare di dimenticare il territorio”, aggiunge Vittorio Fontana, “che invece nella mia Regione è stato molto trascurato; imparare che i medici medicina generale devono essere il perno del sistema sanitario nazionale; che se il territorio non è ben strutturato gli ospedali non possono reggere una pandemia. La pandemia andava gestita sul territorio più che negli ospedali. Altro aspetto importante è che la politica ha una responsabilità e un’importanza fondamentale nell’organizzazione della sanità, e che probabilmente il territorio e la prevenzione non sono proprio la cosa di maggiore interesse per il privato: è la sanità pubblica che se ne deve occupare e deve essere sicuramente rafforzata. Dunque, ripartirei dal territorio e ricomincerei dall’idea di sanità pubblica.

Ripartire dalle cure primarie, insomma. E dalle parole con cui Vittorio Fontana chiude il proprio racconto: “Quelli che tra noi l’hanno scampata, hanno l’obbligo di ricominciare a costruire. Insegnare agli altri ciò che sappiamo e tentare con quel che rimane delle nostre vite di cercare la bontà e un significato in questa esistenza”.