L’Organizzazione mondiale della sanità alla fine ha deciso. La nuova revisione dell’Icd (International Classification of Diseases), l’undicesima, include anche il gaming disorder nel suo elenco di patologie ufficialmente riconosciute, certificando la presenza e la gravità del problema.
D’altra parte la dipendenza da giochi elettronici negli ultimi anni è diventato un fenomeno davvero globale, pervasivo e riconoscibile, non più soltanto una mania da nerd. I genitori ne sperimentano quotidianamente gli effetti ogni volta che con fatica provano a strappare i figli dalle loro console per la cena o per fare i compiti. L’industria videoludica è una delle più proficue attività del pianeta e le piattaforme online che permettono ai giocatori di misurarsi tra loro in ogni momento attraverso giochi estremamente immersivi hanno fatto il resto. Fortnite, uno shooter multiplayer, è il videogioco più popolare del momento e viaggia al ritmo di 300 milioni di dollari di ricavi al mese; per la fine dell’anno è previsto che superi l’iperbolica cifra di 200 milioni di giocatori attivi.
Della dipendenza da gaming ha parlato lo psichiatra inglese Richard Graham, specializzato in infanzia e adolescenza, in un’intervista ad Al Jazeera.
Come tossici
Cosa accade al nostro cervello mentre siamo immersi in un videogioco? Più o meno quello che succede quando siamo impegnati in qualsiasi attività eccitante: rilascia endorfine, ci gratifica e ci fa desiderare di continuare a giocare. Questo meccanismo ovviamente è ben noto ai designer di videogame (e ai social media) che hanno imparato (a nostre spese) come mantenerlo attivo il più a lungo possibile.
Quattordici-quindici anni è l’età media dei pazienti di Graham. Non casualmente. Si tratta a quanto pare del periodo in cui lo stress scolastico raggiunge livelli che non tutti sono in gradi di reggere, e la tecnologia viene in soccorso, ma quella che appare ai ragazzi come una soluzione in realtà finisce per rivelarsi soltanto una fuga inutile, che sostituisce attività “offline” altrettanto appaganti. Anzi, quello che all’inizio sembra un modo sano per sottrarsi allo stress delle pressioni familiari, del bullismo o di una crisi tra i genitori comincia ad avere un potere di attrazione in sé e il ragazzo smette di avere il controllo sull’uso che ne fa. La quantità di cui sente di aver bisogno aumenta sempre di più e si instaura il meccanismo di dipendenza (esattamente come succede per le droghe o l’alcol).
Videogiochi: ieri e oggi
Qual è la differenza fondamentale tra i videogiochi attuali e quelli delle altre generazioni dal punto di vista della dipendenza? Intanto nell’esperienza di gioco converge oggi una gamma di desideri e ricompense molto più complessa che in passato. Il multiplayer online di massa che riguarda alcuni dei giochi di maggior successo (Fortnite e Halo, per esempio) ha amplificato l’effetto dipendenza portando stuoli di pre e postadolescenti a trascorrere nell’universo virtuale il maggior numero di ore possibili. Ma non bisogna trascurare almeno un paio di aspetti dell’esperienza videoludica contemporanea: la spesa potenzialmente contenuta richiesta al giocatore e la possibilità di giocare praticamente ovunque. Bastano una connessione wi-fi e un cellulare. E l’accessibilità è la culla delle dipendenze… Poi c’è la competizione tra giocatori con l’esaltazione e la frustrazione che possono derivare dal tentativo di migliorare la propria classifica nel gioco.
La disintossicazione digitale
Come si cura la game addiction? Graham spiega che quasi sempre l’opzione migliore è cominciare con la disintossicazione digitale. Al Nightingale Hospital presso cui lavora si propone al paziente l’astensione totale dal gioco per un periodo stabilito, ma il livello di immersione spesso è a un livello tale da impedire al ragazzo perfino di pensare a un mondo che vada oltre il gioco. Il tentativo di tenerlo lontano genera spesso livelli di agitazione, aggressività e perfino panico difficili da gestire. Le reazioni possono essere così estreme da mettere a rischio la salute del paziente e richiedere l’intervento della polizia.
In questi casi l’équipe può raccomandare un intervento in cui gli altri membri della famiglia discutano su come limitare l’accesso al gioco oppure, e spesso si rivela più facile, a Internet. L’occasione per inserire la disintossicazione digitale può essere una vacanza in campeggio, un contesto in cui il ragazzo si ritrova impegnato in una moltitudine di attività. Certo non si può restare in vacanza per sempre, però una volta fatto il primo passo, si verifica una specie di risveglio nel paziente. Quando questo avviene, si rende conto dell’impatto che la dipendenza ha sulla propria vita, di ciò che gli viene sottratto (in termini amicizie, tempo, anni scolastici), e il processo di cura diventa più facile.
Più famiglia e meno farmaci
I farmaci possono rivelarsi utili in casi estremi. Graham ricorda che all’inizio della sua carriera gli capitò di prescrivere farmaci in grado di agire sul tono dell’umore perché la game addiction era associata alla depressione, ma si parla di casi relativamente rari. La disintossicazione digitale resta la prima scelta. Come per le droghe stimolanti, il cervello ha un carico eccessivo di stimoli e l’interruzione svolge un ruolo chiave per riportarlo ad una situazione accettabile.
Come è naturale nel caso degli adolescenti, il ruolo della famiglia può rivelarsi decisivo in un senso o nell’altro. Se i genitori non prendono una posizione giudicante, è meno probabile la spirale perversa per cui la ribellione si sovrappone alla dipendenza e qualsiasi discussione rischia di degenerare fino alla reciproca aggressione fisica.
La responsabilità dei creatori e il ruolo della scuola
Gli sviluppatori di giochi devono entrare nell’ordine di idee che la diffusione dei loro prodotti può portare a conseguenze imprevedibili. Insomma devono comportarsi come fa l’industria del farmaco, prospettando potenziali affetti avversi e tutelandosi contro eventuali cause nei loro confronti. Ma in uno dei settori più competitivi che esistano, l’obiettivo resta sempre mantenere il giocatore attaccato al device il più a lungo possibile.
Bisogna però riconoscere che negli ultimi tempi grandi aziende come Apple, Google e Facebook stanno facendo alcuni sforzi verso un modello di business un po’ più etico, con una maggiore attenzione per il benessere degli utenti.
Proprio Facebook ad esempio ha commissionato una ricerca alla Michigan University da cui emerge che l’uso passivo e casuale del social media (scrollare senza un vero obiettivo saltando da un post all’altro) ha un impatto più negativo sull’umore rispetto ad un uso più consapevole, attivo e mirato. Eppure Graham crede che sia necessario un ripensamento complessivo del nostro modello di mondo digitale, stabilendo in modo più preciso come bisogna usare la tecnologia, cosa migliora il nostro benessere o almeno non danneggia la nostra salute
Per raggiungere un grado di consapevolezza sufficiente a rendere giochi e social media un’opportunità e non una condanna, ancora più che una legislazione restrittiva, è necessario lavorare a livello educativo. Le scuole possono essere di grande aiuto nel percorso dei ragazzi verso un rapporto sano con la tecnologia. Abituarsi dall’inizio ad avere abitudini sane aiuta a mantenerle più avanti, dal tempo di gioco all’igiene del sonno.
Sopravvivere a Fortnite
Graham, un po’ in controtendenza, non arriva a sostenere l’idea di tenere lontani del tutto i più piccoli dagli schermi: meglio buone abitudini e autocontrollo piuttosto che un divieto totale che non prepara ad affrontare i rischi che prima o poi arriveranno. In fondo sembra solo questione di tempo, non è poi così futuribile un mondo in cui le persone trascorreranno gran parte delle loro esistenze in spazi virtuali e il gioco sarà parte integrante di questi spazio, senza rischi per la salute mentale delle persone, in un ecosistema diverso ma sano. Nel frattempo però bisogna sopravvivere a Fortnite…