Matteo Arzenton, Marco Bianconi, Rosedwige Marchitelli: sono alcuni dei ragazzi del Comitato Giovani di FedEmo, che in occasione della XV Giornata Mondiale per l’Emofilia che si è svolta a Roma il 15 aprile 2019, ci hanno raccontato cosa vuol dire essere un emofilico, quali sono gli ostacoli che si incontrano e quanto sia entusiasmante superarli, assieme.
L’emofilia è una malattia rara di origine genetica: in Italia ne soffrono circa 5.000 persone; in Europa oltre 32.000. L’incidenza è di un caso ogni 30.000 maschi. Chi è colpito da emofilia è soggetto a numerose emorragie, anche spontanee, dovute a un deficit delle proteine coinvolte nel processo della coagulazione. Tale processo, in condizioni di normalità, comporta infatti l’attivazione di numerose proteine del plasma in una sorta di reazione a catena che arresta velocemente la fuoriuscita di sangue. Nelle persone affette da emofilia due di queste proteine, il fattore VIII ed il fattore IX, sono mancanti o presenti in percentuali estremamente ridotte. Ci sono due i tipi di emofilia, A o B. La “A” è la forma più comune ed è dovuta ad una carenza del fattore VIII della coagulazione; si registra un caso ogni 10.000 maschi. La “B” è provocata invece dalla carenza del fattore IX della coagulazione.
“Non poter fare i cento metri di corsa, fa parte delle mie caratteristiche come tanti altri”, racconta Marco. Eppure Marco oggi può riconoscere che l’emofilia gli ha dato la possibilità di maturare una sensibilità verso l’altro diversa, un’empatia profonda, una qualità che altre persone non hanno avuto l’opportunità di affinare. “Vedere l’emofilia come un aspetto positivo della mia vita, come una bellezza, come una ricchezza e non un limite”, questo è per lui il traguardo più grande, raggiunto, da emofilico.
Vedere l’emofilia come un aspetto positivo della mia vita, come una bellezza, come una ricchezza e non un limite.
“Essere un paziente emofilico vuol dire forse non sentirsi completamente libero di lasciare l’Italia, la propria Regione, le conoscenze che si hanno, perché si può essere sempre sottoposti a qualche rischio e non si ha la certezza di poter gestire questo rischio in un Paese che ha meno possibilità, come può essere un paese africano dove fare un’esperienza di volontariato”, racconta invece invece Matteo Arzenton, emofilico e studente di medicina, nel ricordare la prima volta che ha pensato di uscire dall’Italia per un’esperienza di volontariato in Africa con il Segretariato Italiano Studenti di Medicina (Sism).
Acquisire la consapevolezza dei limiti che una malattia come l’emofilia ti può porre di fronte è stata per Matteo la barriera da superare. La consapevolezza arriva, secondo lui, quando cresci e cominci a confrontarti con il mondo al di fuori della confort zone della famiglia o del paese in cui vivi.
“L’attività sportiva è un altro topic importante che sta migliorando negli anni, grazie al contributo di FedEmo che si è impegnata su più fronti”, continua Matteo. Oggi un emofilico può fare sport eppure ancora trova degli ostacoli e delle resistenze, quelle di chi non conosce la malattia e teme di non essere sufficientemente attrezzato per gestire le criticità che si riscontrano in un emofilico che pratica uno sport.
Le manifestazioni emorragiche più tipiche dell’emofilia sono gli emartri, che si manifestano con un sanguinamento interno a livello articolare, principalmente a carico di ginocchia, gomiti e caviglie, spesso fin dalla prima infanzia. Emartri ripetuti conducono all’artropatia emofilica, una complicazione ad esito estremamente invalidante tipica della patologia. E gli ematomi muscolari, che sono a carico più spesso della muscolatura degli arti, ma anche del muscolo ileo-psoas, un ematoma grave e subdolo, in grado di causare emoperitoneo e/o compressione del fascio vascolo-nervoso femorale.
Nel decidere quale sport praticare, la condivisione della scelta con i clinici del proprio centro emofilia è la chiave per trovare il giusto compromesso tra i desideri e le aspettative del paziente e ciò che può assicurargli il massimo beneficio.
Matteo tra i traguardi raggiunti mette anche quelli che riguardano la terapia che “hanno cambiato il destino della malattia e del paziente affetto da emofilia”. Ma non solo: “È la consapevolezza comune della malattia e la creazione di un gruppo forte come quello di FedEmo giovani nel quale tutti ci sentiamo liberi di esprimere e condividere tutto ciò che fa parte della nostra vita quotidiana come pazienti e come persone”.
“Una maggiore unità di tutti gli emofilici e una partecipazione alla vita associativa… come soci, volontari, simpatizzanti, amici, per avere un gruppo unito di persone che condividono questa patologia e si capiscono anche al volo”, è proprio prossimo traguardo che si pone infatti Marco per un futuro abbastanza prossimo.
Ma l’emofilia come si trasmette? I geni che codificano la sintesi dei fattori della coagulazione VIII e IX sono situati sul cromosoma X. Il cromosoma X, portatore del difetto di coagulazione che determina l’emofilia, viene identificato come “Xe”. Nelle donne portatrici di un cromosoma “Xe”, l’altro cromosoma X, non colpito, compenserà la produzione di fattore VIII o IX. Poiché non esistono geni per i fattori della coagulazione sul cromosoma Y, i maschi non possono beneficiare di tale compensazione e rappresentano quindi il maggior numero di persone colpite da questa patologia.
Al contrario, è estremamente raro che una donna sia colpita da emofilia: perché ciò accada, il padre deve essere affetto da emofilia e la madre portatrice sana. Molte donne portatrici possono presentare livelli di fattore della coagulazione relativamente bassi e mostrare i segni di una emofilia “lieve”. Nelle famiglie in cui sono presenti casi di emofilia è possibile sottoporre le donne all’analisi del Dna, che si effettua a partire da un normale prelievo di sangue, per stabilire se siano portatrici. È anche possibile effettuare la diagnosi prenatale nelle gravidanze a rischio.
Come riferimento la figura presa in considerazione è la madre, o la sorella, o comunque una figura femminile del nucleo famigliare.
Forse è per questo che alla domanda “Whose hemophilia is It?”, la risposta è: “Di tutti tranne che dei padri”. Rosedwige Marchitelli ci racconta come, nel 2018, in occasione dell’appuntamento annuale della Wfh, abbia raccolto questa riflessione che l’ha colpita molto. “Come riferimento la figura presa in considerazione è la madre, o la sorella, o comunque una figura femminile del nucleo famigliare”, spiega Rosedwige. “Ne parlammo (in occasione del congresso della Wfh, ndr) e la considerazione a cui arrivammo fu che molto probabilmente nei primi anni dell’emofilia l’importanza del ruolo della madre è prevalente, anche per il coinvolgimento psicologico”. Capita spesso, infatti, che le madri si sentano responsabili o addirittura colpevoli della malattia del proprio bambino, ed è anche per questo che forse la figura materna si pone al centro della presa in carico del paziente con emofilia.
“Per fortuna negli ultimi anni anche nella nostra associazione abbiamo assistito ad un’inversione della tendenza”, continua Rosedwige, sorella di un ragazzo con emofilia. “Se per esempio un tempo i corsi di autoinfusione per i genitori erano molto più frequentati dalle mamme, adesso c’è una situazione praticamente paritaria: ci sono tanti papà che si mettono in gioco, che vogliono affrontare da protagonisti la malattia dei propri figli”.
I padri, ma anche i fratelli, i nonni e gli amici hanno, secondo Rosedwige, un ruolo chiave perché possono essere da esempio, da competitore, in molte attività, spronando la persona affetta da emofilia verso una normalità. È fondamentale, dunque, continuare a valorizzare i rapporti con le figure di riferimento maschili.