“Ebola, Sars, Hiv / Aids, febbre del Nilo occidentale e ora Covid-19 queste malattie hanno tutte una cosa in comune, vengono trasmesse dagli animali all’uomo. Ci sono molte ragioni per cui le malattie zoonotiche stanno diventando sempre più diffuse: la perdita di habitat, l’intensificazione dell’agricoltura e lo sfruttamento della fauna selvatica, incluso il suo commercio illegale, stanno riducendo le barriere tra il mondo umano e quello animale, ciò sta facilitando il passaggio dei germi da altre specie a noi”. Con queste parole António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite ha presentato l’ultimo rapporto su Covid-19 “Prevenire la prossima pandemia. Le malattie zoonotiche e come rompere la catena di trasmissione” del programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep).
Tema centrale del rapporto sono le responsabilità umane nella diffusione di queste malattie infettive causate da patogeni che si spostano da un ospite animale a uno umano, chiamate zoonosi, e su cosa cambiare nel nostro comportamento e nel rapporto con la natura e con gli animali, selvatici e domestici, per evitare nuove pandemie. Mentre la pandemia da Covid-19 ancora non ha raggiunto il suo picco globale (al momento in cui questo articolo viene scritto il numero di casi diagnosticati ha superato quota 13,5 milioni e continua ad aumentare, secondo il Coronavirus Resource Center della Johns Hopkins University), l’Unep si concentra invece sulle strategie per contenere il rischio tanto di nuove zoonosi quanto della loro trasformazione in pandemie globali.
Secondo il documento, circa il 60 per cento delle infezioni umane ha un’origine animale e ben il 75 per cento delle malattie infettive emergenti è stato provocato da un salto di specie. Certo non tutte diventano pandemie o anche solo epidemie. Solitamente, infatti, queste malattie sono problemi endemici di comunità povere, con inadeguate misure di igiene di base, scarso accesso ad acqua e a sistemi fognari o di rimozione dei rifiuti, insicurezza sociale e politica, bassi livelli di alfabetizzazione, disuguaglianze sociale e di genere. Come parte di queste realtà, e nella maggior parte dei casi non assumendo le dimensioni pandemiche che ha Covid-19, queste sono fin troppo spesso dimenticate. Neglette è il termine specifico. Tuttavia queste malattie – in particolare quelle legate a tossinfezioni alimentari – hanno globalmente un peso sanitario comparabile a quello del trio Hiv/Aids, tubercolosi e malaria. Nei paesi più poveri del mondo, infatti, le zoonosi endemiche neglette associate alla produzione di bestiame causano oltre due milioni di morti umane all’anno.
La responsabilità umana nell’insorgenza e diffusione di queste malattie e la loro potenzialità pandemica è nota da tempo: studiata sin da quando queste malattie si sono manifestate, è stata formalizzata in indicazioni per politici e governanti per lo meno una quindicina di anni fa, ed è stata portata poi alla comunità mondiale di non esperti dal best-seller di David Quammen “Spillover” (in Italia edito da Adelphi), nel 2012.
“Sia chiaro che sono connessi, questi focolai di malattie che si presentano uno dopo l’altro. E non sono solo un male che ci capita; sono il risultato non desiderato di ciò che stiamo facendo (…)”, scrive Quammen. “Dobbiamo capire che, sebbene alcuni dei fattori causati dall’uomo possano sembrare praticamente inesorabili, altri sono sotto il nostro controllo”. Ma quali sono questi fattori sotto il nostro controllo?
Il rapporto dell’Unep ne evidenzia sette: crescente richiesta di proteine animali, intensificazione insostenibile dell’agricoltura, crescente sfruttamento degli animali selvatici, uso incontrollato delle risorse naturali, cambiamenti nella filiera alimentare, cambiamenti climatici.
Sebbene alcuni dei fattori causati dall’uomo possano sembrare praticamente inesorabili, altri sono sotto il nostro controllo.
Questi fattori portano complessivamente a una perdita di habitat e di biodiversità che favorisce l’insorgenza e la diffusione di queste malattie: molti dei predatori degli ospiti intermedi (per esempio di uccelli e roditori) di questi patogeni si estinguono in seguito a questa perdita di habitat, uomini e animali (potenziali reservoir e ospiti intermedi di questi virus e patogeni) vengono sempre più in contatto, aumenta dunque anche la caccia e la vendita di selvaggina, spesso in contesti in cui non vengono rispettate le più basilari norme igieniche e di sicurezza alimentare.
“Quanto più sfruttiamo le aree marginali tanto più creiamo opportunità di trasmissione”, spiega Eric Fèvre, docente di malattie infettive veterinarie dell’Università di Liverpool e ricercatore dell’ International Livestock Research Institute. “La scienza dice chiaramente che se continuiamo a sfruttare la fauna selvatica e distruggere i nostri ecosistemi, allora, negli anni a venire, possiamo aspettarci di vedere un flusso costante di queste malattie che saltano dagli animali agli umani“, conferma Inger Andersen, direttore esecutivo dell’Unep.
“Cosa possiamo fare allora?”, si chiede Guterres. “Per prevenire futuri focolai, i paesi devono conservare l’habitat selvaggio, promuovere l’agricoltura sostenibile, rafforzare gli standard di sicurezza alimentare, monitorare e regolare i mercati alimentari, investire in tecnologia per identificare i rischi e frenare il commercio illegale di animali selvatici. Infine, deve essere adottato un nuovo ambizioso framework per proteggere e utilizzare in modo sostenibile la biodiversità a livello globale con obiettivi e mezzi di attuazione chiari”, spiega il segretario Generale.
Di questo stesso set di strategie fa parte anche la proposta di Daniel Streiker – esperto di zoonosi dell’Università di Glasgow – per prevenire il salto di specie. Streiker individua come possibile strumento la vaccinazione degli animali, per esempio pipistrelli, che costituiscono i reservoir dei virus. Il rapporto si limita invece a sottolineare l’efficacia di un costante e intenso controllo degli animali selvatici attraverso il rilevamento sistematico della biodiversità di microbi e patogeni in queste specie (come suggerito anche da un recentissimo studio pubblicato su Science), l’impiego di “sentinelle” e il monitoraggio di fattori ambientali che aumentano il rischio, quali per esempio periodi di piogge prolungate, modificazioni nella distribuzione geografica di alcune specie e via dicendo.
Quanto più sfruttiamo le aree marginali tanto più creiamo opportunità di trasmissione.
Tuttavia l’approccio potenzialmente più efficace suggerito dal rapporto, nascosto nello statement di Guterres dietro alla parola “framework”, è quello che viene definito “One Health”. Anche questa non è una soluzione nuova, se ne parla più o meno da quanto si è cominciato a porsi il problema di come affrontare e prevenire le zoonosi. In particolare se ne parla dal 2004 quando, in un meeting mondiale organizzato dalla Wildlife Conservation Society e dedicato proprio al tema “One World, One Health”, sono stati lanciati i cosiddetti Manhattan Principles. Sono dodici raccomandazioni per come “stabilire un approccio più olistico per prevenire epidemie / malattie zoonotiche e per mantenere l’integrità degli ecosistemi a beneficio degli esseri umani, dei loro animali domestici e della biodiversità di base che ci supporta tutti”.
Secondo il rapporto, la strategia One Health “può essere definita come lo sforzo collaborativo e multidisciplinare per ottenere condizioni di salute ottimali per gli esseri umani, gli animali e l’ambiente”. Simile, ma più articolata la definizione dell’Organizzazione mondiale per la sanità che la definisce “un approccio alla progettazione e attuazione di programmi, politiche, legislazione e ricerca in cui più settori comunicano e lavorano insieme per raggiungere una migliore salute pubblica. È un approccio interdisciplinare e intersettoriale che cerca di esaminare in modo olistico interconnessioni tra salute umana e ambientale o dell’ecosistema”. Secondo l’Istituto superiore di sanità infine, “One Health è un approccio ideale per raggiungere la salute globale perché affronta i bisogni delle popolazioni più vulnerabili sulla base dell’intima relazione tra la loro salute, la salute dei loro animali e l’ambiente in cui vivono, considerando l’ampio spettro di determinanti che da questa relazione emerge”.
Il rapporto traduce questa visione globale della salute in dieci raccomandazioni che includono incentivi per un uso sostenibile del territorio, investimenti in approcci interdisciplinari, maggiore monitoraggio dei sistemi alimentari, sviluppo di alternative per la sicurezza alimentare e miglioramento della coesistenza sostenibile dell’agricoltura e della fauna selvatica. Tuttavia, avvisano gli autori del rapporto, queste sono raccomandazioni che riguardano in particolare gli aspetti di salute animale e ambientale e devono essere “integrate in pacchetti di politiche di recupero a breve termine, tanto quanto piani di sviluppo a lungo termine”.
Nell’immediato, sottolineano gli autori, è fondamentale implementare, finanziare e gestire una risposta alla Covid-19 (sempre anche in previsione di future pandemie) sul piano della salute pubblica e allo stesso tempo preservare il sistema alimentare globale, come anche aumentare le misure di protezione e supporto delle popolazioni più povere, vulnerabili e marginalizzate. Sembra voler ammettere, questa esortazione, che la strategia per la ripresa dalla pandemia di Covid-19 e per la prevenzione da quelle future ha dunque bisogno di essere ancora più complessa del solo concept One Health. Economia, relazioni internazionali, politica sanitaria, istruzione sono aspetti altrettanto importanti.
Per esempio, in molti Paesi non si possono prendere determinate misure di contenimento del contatto tra essere umano e animali selvatici senza minare economie locali e senza mettere in pericolo la sopravvivenza stessa di famiglie e comunità. Non si può prevenire la diffusione incontrollata di un virus senza una rete territoriale di medici e operatori sanitari, senza un sistema di tracciamento dei contagi e senza implementare strategie di cooperazione internazionali e senza trasparenza nelle comunicazioni. E questi sono solo alcuni esempi.
I costi della pandemia da Covid 19 sono stati altissimi. Quelli umani (al 15 luglio oltre 580mila morti, di cui quasi 35mila in Italia – senza contare le conseguenze a lungo termine sulla salute di questa malattia che ancora non conosciamo); quelli economici (9 trilioni, ovvero 9mila miliardi di dollari, nei prossimi due anni; nel nostro piccolo, Bankitalia prevede per il 2020 una riduzione del Pil del 9,5 per cento, che può arrivare fino al 13 in caso di nuovi focolai autunnali); quelli sociali (per esempio, gli oltre 290,5 milioni di studenti rimasti senza lezioni, secondo l’Unesco).
Sono questi costi a esigere un cambiamento. A esigere un pensiero complesso, in grado di disegnare e implementare interventi socio-politici che abbiano ognuno una ricaduta su più aspetti contemporanemaente, come salute globale e recupero ambientale, istruzione e innovazione tecnologica, gestione delle risorse naturali e disuguaglianze sociali ed economiche. E interventi che abbiano un impatto positivo a lungo termine e per tutto il pianeta e la sua popolazione di quasi otto miliardi di persone.
One Health è un aspetto chiave della strategia da implementare, ma è bene anche recuperare la seconda parte del titolo del congresso del 2004: One World.