“Per contrastare l’emergenza sanitaria abbiamo invertito la rotta, siamo andati incontro alla realtà per come si poneva e abbiamo reinventato l’organizzazione interna in chiave di emergenza”, spiega Tommaso Poliseno, psichiatra della Asl Rm 1. Con lui abbiamo parlato di come si possa affrontare l’emergenza da Covid-19 all’interno di una Comunità terapeutico riabilitativa, uno dei luoghi sul territorio dove avviene l’assistenza psichiatrica.
Tommaso Poliseno è Responsabile del Coordinamento Percorso Residenziale Preventivo del Dipartimento di Salute Mentale presso la Asl Rm 1 e, nella nostra lunga chiacchierata ci ha tenuto a soffermarsi sulle strategie operative messe in atto per ristrutturare la quotidianità della vita comunitaria, una volta scattata l’emergenza, prima ancora di affrontare quali fossero i rischi sul piano psicopatologico per chi abita la comunità.
“La Comunità è una piccola parte dei luoghi dove avviene l’assistenza psichiatrica”, esordisce Poliseno. “Tutto quello che abbiamo messo in opera cerca di contrastare l’isolamento pur dovendo rimanere isolati”.
Il paziente psichiatrico è un essere umano, una persona che, per motivi vari, soffre di un disagio psichico che lo porta ad un rapporto alterato e distorto con sé stesso, con gli altri e con il mondo. Ma è proprio sul recupero di questo rapporto con la realtà che poggia il percorso che ogni comunità terapeutica mette in atto per la riabilitazione di un individuo. La comunità terapeutica lavora affinché il paziente possa ricreare dei ponti con la realtà, e deve fare i conti con una realtà che in questo momento è definita da una condizione di emergenza, fatta di misure per il contenimento dell’epidemia da coronavirus. Soffrire di una psicosi non significa che non sia importante seguire le stesse regole di protezione che valgono per gli altri.
“L’emergenza è emergenza. Con grande semplicità (…) anche se io ho una psicosi questo non mi squalifica al punto che non debba capire l’emergenza cosa è, cosa c’è da fare per proteggersi”, sottolinea infatti Poliseno. “In questa maniera andiamo al cuore di un problema (…) che è quello dello stigma, della marginalità, della squalifica del cittadino che soffre di un certo disturbo”.
Il primo obiettivo è stato lavorare per la vigilanza e la sorveglianza sanitaria: nessuno esce senza controllo. Il passaggio successivo è stato quello di attrezzarsi per mantenere ponti e relazioni con la realtà per come si stava ponendo. Quando è scattata l’emergenza è stata ristrutturata profondamente la vita comunitaria e soprattutto la domiciliarità: la impossibilità per le persone di allontanarsi dai propri domicili riguarda anche chi abita la comunità. “Per i pazienti la comunità è diventata un domicilio da cui non potersi muovere se non per motivi di estrema urgenza”, spiega Poliseno. Da qui la necessità di cambiare stile di vita all’interno della comunità che si è dovuta riattrezzare per confrontarsi con le misure di distanziamento e il divieto di allontanarsi dal proprio domicilio.
“Le prime misure hanno limitato la libertà di movimenti e a questo si è aggiunta la necessità di stare ad una distanza di sicurezza di almeno un metro e quindi su indicazioni generali del Dipartimento abbiamo dovuto interrompere tutti i gruppi (…)”, aggiunge lo psichiatra. “La numerosità in moltissime situazioni, in moltissimi incontri impediva di mantenere la distanza di sicurezza quindi abbiamo fermato un po’ tutto, come hanno fatto anche i centro diurni”.
Per contrastare l’emergenza sanitaria abbiamo invertito la rotta, siamo andati incontro alla realtà per come si poneva e abbiamo reinventato l’organizzazione interna in chiave di emergenza.
La quotidianità è stata reinventata in chiave di emergenza. “La mattina e la sera prendono tutti la temperatura, anche gli operatori… ci si misura tutti la febbre”, spiega Poliseno entrando nel dettaglio dei cambiamenti messi in atto. “Partono dei turni al desk, davanti alla porta di ingresso in comunità: a turno sia i pazienti sia gli operatori siedono con l’attrezzatura – i guanti, le mascherine, il disinfettante – chiunque entra o esce viene monitorato, gli si chiede se ha lavato le mani o come mai è senza mascherina. Di comune accordo a turno operatori e pazienti, ci controlliamo gli uni con gli altri”, aggiunge.
Ci sono tre squadre di pulizia divise in gruppi che ruotano in turni di pulizie finalizzate ad un miglioramento di qualità dello spazio comune. Si tratta di un’attività complementare alle normali attività di pulizia, che continuano ad esserci, messa in atto per coinvolgere tutti nella vita comunitaria con un ruolo diverso di autotutela: “l’importante è che tutti si sentano coinvolti in un’attività di protezione reciproca”.
Per affrontare i tempi morti che sono grandi ci sono piccoli gruppi che a turno nel primo pomeriggio si occupano di organizzare i divertimenti – dalla ginnastica alla visione di un film all’ascolto della musica -: attività che permettano di non annoiarsi e distrarsi dalle continue notizie che potrebbero generare allarme o preoccupazione. “Poi verso la fine della giornata, sempre con lo stesso sistema a piccoli gruppi per evitare affollamenti, c’è una riunione di confronto; un momento in cui comunicare gli stati d’animo, condividerli, darsi dei consigli, potersi confidare su alcune preoccupazioni particolari”, continua Poliseno. Così come avviene nelle nostre case, la cucina diventa uno spazio più vissuto: un gruppo cucina per portare a merenda un ciambellone o una crostata. “In piccoli gruppi per volta, si procura anche il necessario, uscendo con i dovuti permessi, vanno al supermercato, comprano quello che serve”.
Nella comunità terapeutica raccontata da Tommaso Poliseno si è partiti dal pratico: “cioè dallo strumentario organizzativo, pensato in chiave psicologica di significato”. Un percorso che sia realmente funzionale ad evitare i rischi a cui queste persone sono più esposte è realizzare un percorso che parte dal pratico, da azioni quotidiane da portare avanti nella comunità, rimodulate in funzione dell’emergenza. I momenti reali di incontro con i famigliari si sono in qualche modo fusi con uno spazio che prima era di racconto delle esperienze vissute a casa per dare vita a chiamate via Skype alle famiglie, alle quali coralmente partecipano tutti i pazienti. Le relazioni con le famiglie sono spesso relazioni che si allargano a tutti i residenti nella comunità, per cui gli spazi di confronto si sono fatti corali: ecco un nuovo ponte verso l’esterno.
L’importante è che tutti si sentano coinvolti in un’attività di protezione reciproca.
“Facile comprendere che il primo rischio è quello del ritiro, dell’isolamento”, spiega Poliseno. Questa parte così imponente della patologia si trova favorita dalla chiusura, potrebbe portare a delle difficoltà più grandi sul piano psicopatologico: “La tendenza spontanea delle psicosi in genere è l’isolamento, fuggire in un mondo parallelo altro, caratterizzato in vario modo. E non importa se il contenuto è di tipo depressivo, persecutorio, eccitatorio.” L’isolamento è un rischio che riguarda tutti indipendentemente dal contenuto della psicosi e, come spiega il medico, “si contrasta con provvedimenti apparentemente di tipo organizzativo, ma di valore psichico, che sono tutti finalizzati a creare dei ponti tra delle persone, ponti con l’esterno”. Sicuramente il ruolo di chi assieme ai pazienti abita la comunità è anche quello di vigilare il rischio di perdere i miglioramenti che sono stati fatti.
Affrontata l’emergenza primaria di portare chi abita la comunità ad un confronto con la realtà delle restrizioni sociali che connotano questo periodo, lo sguardo è volto a futuro prossimo con l’augurio di trovare forme più morbide di domiciliarità, ma controllate, per reggere nel lungo periodo. Se un tavolo di confronto dovesse aprirsi, questo potrà servire per entrare nello specifico di questo mondo: dal mettere a punto un protocollo per fare la passeggiata all’ammorbidire le modalità di collegamento con l’esterno, fino al ridefinire il diritto di stare vicini a una persona disabile per accompagnarla. “Una fase due sarà quella di riuscire a proteggere di più in prossimità, il più vicino possibile al singolo paziente. Una tensione etica che speriamo di poter realizzare”, è l’augurio di Poliseno.