“Non è una situazione che lascia tranquilli perché il carcere rappresenta quel mondo chiuso che dovrebbe essere tutelato dal virus. È un po’ la stessa situazione delle Rsa, certamente meno grave, ma in una situazione del genere i posti residenziali con soggetti che hanno fragilità necessitano di una forte attenzione. Invece, non è stata sufficiente e soprattutto non sufficientemente tarata alla specificità del luogo”. A raccontare la situazione nelle carceri in seguito al diffondersi della pandemia di Covid-19 è Luciano Lucania, presidente Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe Onlus), che in un’intervista rilasciata a Senti chi parla, si mostra decisamente preoccupato.
Dopo la morte del primo detenuto italiano per Covid-19, avvenuta a Bologna ormai a fine marzo, i contagi sono aumentati anche nelle carceri. Al 20 aprile i detenuti positivi in tutta Italia erano 133, concentrati in pochi istituti. Verona, con 29 detenuti positivi al nuovo coronavirus, una ventina di guardie contagiate, un agente finito in rianimazione per crisi respiratoria, si è trasformata nel più grande focolaio penitenziario.
“I detenuti chiedono sicurezza perché hanno le stesse preoccupazioni che abbiamo noi, ma in misura maggiore perché è evidente come lo stato di detenzione in sé induca in una situazione come questa un livello di allarme e paura maggiore. Dall’altro lato, i nostri operatori continuano il loro lavoro, ma andrebbe fatto uno sforzo maggiore per tutelare un lavoro così complesso. Solo nell’ultimo Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ndr) c’è stato un singolo riferimento al carcere, laddove viene indicata l’opportunità che il nuovo giunto se sintomatico venga tenuto in quarantena prima di avere contatti con la comunità”, continua Luciano Lucania.
Una delle prime precauzioni adottate dal Consiglio dei Ministri, invece, è stata la sospensione dei colloqui con i familiari in tutto il Paese, indicando agli istituti penitenziari di aumentare l’accesso alle telefonate per i reclusi e di permettere di videochiamare i propri cari con tecnologie telematiche. Nelle stesse ore sono esplose diverse proteste in circa 27 carceri italiane. In alcuni casi, i detenuti hanno abbattuto le sbarre delle loro celle, bruciato i materassi, sono usciti dalle sezioni e sui tetti. Alcuni di loro sono riusciti a evadere dal carcere di Foggia, e le autorità hanno confermato che 12 detenuti sono morti durante una rivolta nell’istituto penitenziario di Modena.
Raccontano Nerina Dirindin e Fabio Gui – Forum Nazionale per il Diritto alla Salute delle persone private della Libertà – in un’intervista alla rivista Forward, che uscirà nei prossimi giorni, che “inizialmente l’emergenza coronavirus nelle carceri non si è gestita bene. Si è chiesto ai detenuti, come elemento di contenimento e prevenzione, l’isolamento, di limitare gli spostamenti. È un ragionamento che prevede l’adesione, la partecipazione, la consapevolezza dei cittadini. Ma si è saputo della chiusura dei colloqui con la famiglia non dalle autorità, ma dalla televisione. E questo ha scatenato nella maggior parte dei detenuti preoccupazione, panico e ansia. (…) La chiusura dei colloqui è un fatto importante che deve necessariamente acquisire una adesione, la partecipazione, la consapevolezza dei cittadini detenuti”.
In carcere il distanziamento sociale non è possibile, non solo per il sovraffollamento, ma perché il carcere per la sua conformazione edilizia non consente di poter stare abbastanza distanziati.
Ciò di cui ci si è dimenticati all’inizio è il problema principale di queste realtà in Italia: il sovraffollamento. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, in Italia ci sono 61.230 detenuti, mentre la capienza delle carceri è pari a 50.931 posti. In questa emergenza sanitaria appare evidente come il sovraffollamento, già lesivo in tempi normali, diventa una barriera alle misure di prevenzione. Basti pensare a quella del metro di distanza, di fatto inapplicabile in celle dove si trovano diverse persone in pochi metri quadrati.
“Di fronte a una malattia così complessa, difficile da trattare perché poco conosciuta e che ha dimostrato grande capacità di penetrazione nel tessuto sociale, le misure di prevenzione esistono con dei limiti. I mezzi che abbiamo nelle carceri per evitare di contrarre e di diffondere la malattia sono quelli a cui tutti noi siamo sottoposti. Ma in carcere il distanziamento sociale non è possibile, non solo per il sovraffollamento, che è già un elemento di complessità, ma perché il carcere per la sua conformazione edilizia non consente di poter stare abbastanza distanziati”, afferma Lucania.
Bisogna ripartire dalla medicina del territorio, in cui rientra anche la sanità penitenziaria.
Per questo, rimane soltanto la possibilità di creare una barriera che renda il carcere il più possibile impermeabile al virus e questo lo si fa soltanto quando gli operatori hanno piena coscienza della propria salute.
“Noi come società scientifica”, prosegue il Presidente della Simps, “è dall’inizio di questa situazione che sosteniamo la necessità di fare i tamponi a chi lavora nelle carceri, dal personale sanitario alla polizia penitenziaria, fino a tutti gli educatori. Mi rendo conto delle difficoltà, ma se riusciamo in maniera organizzata a rispondere a questa esigenza probabilmente riusciremo a evitare un problema di grandi dimensioni”. Lascia ben sperare che dai 61.230 detenuti del 29 febbraio si è passati ai 54.323 del 21 aprile. Un calo dovuto alla diminuzione degli ingressi e alle scarcerazioni per fine pena, per i benefici preesistenti e per quelli inseriti di recente. Un numero, però, che ancora non basta.
“Ci sono degli insegnamenti da trarre da questa epidemia. Pensiamo all’importanza della sanità territoriale, che in questa epidemia è stata non sempre efficace. Viviamo in un’epoca in cui la medicina ha lavorato alle super specializzazioni, prospettive che 40 anni fa uno neanche sognava, ma all’epoca il rapporto medico paziente filtrato attraverso il territorio era una delle prime realtà. Oggi, invece, il cittadino italiano si rivolge troppo presto all’ospedale. E la difficoltà in questo periodo è proprio quella di curare i malati a casa in modo efficace. Bisogna ripartire dalla medicina del territorio, in cui rientra anche la sanità penitenziaria”.
Se vuoi saperne di più, l’Associazione Antigone, per i diritti e le garanzie nel sistema penale, sta provvedendo in questi giorni a una mappatura delle misure adottate dai singoli istituti penitenziari. Qui la mappatura.