La dimensione collettiva torna al centro, o almeno così mi piace sperare nell’indeterminazione dell’oggi, per riflettere sulla piena fase 2 dopo l’emergenza sanitaria e sul suo impatto sul benessere e la salute mentale: dalla responsabilità collettiva, al centro di un post di Maurizio Bonati sul Blog Salute Internazionale, all’intelligenza collettiva, che risuona nel nuovo lessico che Alberto Siracusano, psichiatra dell’Università di Roma Tor Vergata, pone al centro di una intervista video rilasciata per la Società Italiana di Psicopatologia, fino ai sei consigli degli esperti psicologi e neuroscienziati, interpellati dalla Bbc per capire come convivere con l’incertezza nuova delle nostre vite in questi tempi senza precedenti.
“Quello che ciascuno troverà, varcata la soglia della quarantena, è ancora un’incognita”, scriveva prima dell’inizio di questa nuova fase Bonati su Salute Internazionale. “Il virus è ancora circolante come la persistenza di nuovi casi (…) e per l’immunizzazione estensiva della popolazione c’è da attendere il vaccino.” Ma un dato di fatto è che la quarantena ha modificato profondamente le abitudini quotidiane di tutti, così come la nostra percezione dell’incertezza. “L’uscita di casa per molti non sarà liberatoria, in particolare, saranno tempi ancora più duri per quelle fragilità che si evidenziano maggiormente nelle realtà metropolitane”, continua Bonati.
Se provavi a fare un giro per la città di Roma nei primi giorni della fase 2, sul farsi della sera alcune di queste fragilità si stagliavano nitidamente sull’orizzonte vuoto delle strade, popolate di poche biciclette e qualche camionetta della polizia. Da via della Conciliazione a Piazza San Pietro erano tante le solitudini visibili nei luoghi che solo poche settimane prima erano stati palcoscenico intimo e potente, della commovente – persino per un punto di vista laico come il mio – preghiera, plumbea e piovigginosa, di papa Francesco. Mentre risalendo per via Gregorio VII verso la sicurezza delle nostre cose e delle nostre cose, c’era solo chi, ed erano molti, si metteva in fila per un panino o per una felpa, chi cominciava a sonnecchiare nel proprio giaciglio , chi intavolava un’animata discussione con la propria bottiglia di vino. Una passeggiata durata poco più di un’ora che mi è bastata per rimettere in discussione la mia percezione di quelle fragilità e parallelamente la mia sensazione di insicurezza.
Come prendersi cura di questa fragilità? Di quali strumenti attrezzarsi per convivere con queste nuove incertezze? Sicuramente rafforzando le nostre capacità di resilienza collettiva: è questa la risposta che ho provato a darmi, prendendo in prestito le parole di Alberto Siracusano, dell’Università di Roma Tor Vergata, con cui ho ragionato sull’emergenza Covid-19 in relazione alla salute mentale. Lo psichiatra si sofferma sull’importanza di investire sulla capacità di un pensiero collettivo, basato sull’altruismo, sulla dimensione della collettività; lo fa nelle sue proposte per un nuovo lessico per la salute mentale. “Dovendo scegliere un lessico per la fase 2 (…) io direi sicuramente libertà, sicuramente fantasia, sicuramente pensare e confrontarsi, riuscire, empaticamente”, sottolinea, infatti, lo psichiatra.
Serve investire sulla capacità di sviluppare una forma di pensiero empatico, collettivo, resiliente perché corale. Abbiamo la possibilità di scrollarci il peso di alcuni falsi valori che si sono dimostrati essere assolutamente secondari: alcuni egoismi, così caratteristici della nostra società, rischiano di non essere così funzionali alle nuove regole dello stare insieme che siamo chiamati a ridefinire. “Oggi abbiamo bisogno di qualcosa di diverso”, continua Siracusano. “L’altruismo, che si è dimostrato utile in tantissime situazioni, la partecipazione, che è qualcosa su cui ci possiamo basare per ricominciare a pensare e ricominciare a pensare insieme per dei nuovi valori”.
Tornando alle parole di Bonati. “Quello che ciascuno troverà, varcata la soglia della quarantena, è ancora un’incognita. La mancanza di una comune strategia che vada oltre al “distanziamento sociale” e alle mascherine dovrebbe preoccupare. (…) La condizione di quarantena ha modificato profondamente le abitudini quotidiane di tutti, anche di coloro che vivevano con restrizioni o limitazioni già prima della pandemia, come i ricoverati nelle lungodegenze o nelle case di riposo, i disabili, i detenuti, i senza dimora. (…) L’uscita di casa per molti non sarà liberatoria, ma aggraverà la situazione in particolare per quelle famiglie che già vivevano sotto la soglia di povertà, per chi aveva un lavoro precario o era addirittura disoccupato, per chi era in lista di attesa per accedere da tempo ad un servizio psicosociale, per chi era in attesa di uscire dal carcere”. Serve una collettività, una comunità responsabile di un agire consapevole basato su principi di giustizia sociale ed economica nel pieno rispetto dell’ambiente, delle altre culture, delle differenze, delle fragilità, dell’incertezza.
Ed è anche per risolvere le fragilità proprie della comunità oltre che del singolo, continua Siracusano “oggi bisogna avere nuovamente la forza di pensare assieme; un’unione empatica che può aumentare la nostra resilienza psichica di gruppo”. Per ridefinire gli spazi della salute mentale siamo chiamati a scegliere parole chiave forse complementari rispetto a quelle che hanno caratterizzato la fase dell’emergenza sanitaria. “Solitudine, isolamento, separazione sono le grandi emozioni che preoccupano le persone che si confrontano con questa pandemia e in più il fatto che la pandemia è di per sé ignota”, spiega lo psichiatra. “Noi abbiamo un mondo ancora poco conosciuto che ci si presenta davanti”.
È una sfida alla nostra creatività, alla nostra capacità di adattarci e di riprogettare la nostra vita.
Se sul piano collettivo la sfida è al rafforzamento del nostro senso di comunità, sul piano individuale è chiamata in causa la nostra creatività. “Le persone hanno bisogno e sentono per la propria salute mentale di voler ritrovare la libertà di poter scegliere e fare delle cose fino a due mesi fa erano la normalità. Il problema è passare dal riprendere nella fase 2 una vita come se niente fosse successo, cosa che non è possibile, al cominciare con delle idee diverse rispetto a propri valori, immaginando qualcosa di nuovo”. La sfida è recuperare quello che facevamo prima ma immaginandosi, là dove è possibile, qualcosa di diverso; riuscire, ma non tramite i vecchi schemi. “Per cui è una sfida alla nostra creatività, alla nostra capacità di adattarci e di riprogettare la nostra vita”, continua Siracusano.
Quelli che stiamo vivendo ci sembra tempi estremamente incerti, in cui abbiamo la sensazione di aver perduto il consueto controllo su molte cose importanti della nostra vita. In questa incertezza, dai contorni nuovi, dovremo ricostruire una quotidianità diversa da quella alla quale eravamo abituati. Ma è ancora possibile essere felici? Sì, secondo gli esperti interpellati dalla Bbc. Il costante stato di allerta a cui siano stati sottoposti in questi ultimi mesi rischia di minare la nostra capacità di pensare in modo chiaro, la nostra capacità di prendere decisioni semplici. Ha nutrito un nuovo senso di incertezza con cui dobbiamo imparare a lottare. A convivere. Come fare? Ecco sei consigli dagli esperti.
Concedere a noi stessi la libertà di sentirci disimpegnati, per cominciare.
Respirare in modo diverso, lento e breve: proviamo a prendere l’aria come se stessimo annusando un fiore profumato, spostandola dal torace al ventre, rallentando il respiro nella fase di emissione con una lunga e completa esalazione, come se stessimo spegnendo una candela.
Essere gentili con noi stessi: la pandemia è un problema nuovo al quale ci stiamo adattando, dobbiamo essere più indulgenti. Proviamo a rimodulare l’aggressività con cui il nostro narratore interiore si rivolge a noi stessi. Scegliamo un dialogo interiore ispirato, immaginando quando parliamo con noi stessi di dialogare in modo incoraggiante e costruttivo con il nostro migliore amico o con i nostri figli.
Ingannare il nostro cervello con qualche certezza. Basta poco: si può cominciare con cose alla portata di tutti come riordinare la stanza o l’armadio, che diventano più efficaci soprattutto se sono cose che non facciamo mai. Poniamoci obiettivi semplici, che solitamente disattendiamo: portarli a termine avrà un effetto sorprendentemente positivo. “Le piccole cose che siamo in grado di controllare, che aumentano anche di poco il nostro senso di sicurezza, sono preziosi strumenti con un impatto positivo per niente ovvio”. Non ce ne accorgiamo ma lo facciamo già: “creiamo piccoli problemi che siamo in grado di risolvere in modo da avere la sensazione che abbiamo la situazione sotto controllo; proprio perché non possiamo risolvere la pandemia”. Un esempio è la carta igienica esaurita tra gli scaffali dei supermercati nelle prime settimane di pandemia: il cervello può capire facilmente i parametri e le dinamiche legate alla mancanza di carta igienica e cercare una soluzione rapida e ragionevole che ci fa stare bene.
Ricercare la chiarezza, al posto della certezza. Stiliamo una lista con i valori più importanti, le cose da cui non è possibile prescindere, indipendentemente dal coronavirus, e giorno dopo giorno agiamo in accordo con questi valori e non in funzione del nostro livello di ansia del momento.
Ricordarsi della relazionalità: questa è un’esperienza che stiamo condividendo con ogni singola persona sul pianeta: “Siamo tutti un po’ soli, ma nello stesso è come se fossimo un po’ tutti insieme”.
La buona notizia è che, in un certo senso, è come se tutti potessimo uscire dalla pandemia con un cervello diverso, i cambiamenti forzati a cui siamo stati costretti nelle nostre routine hanno spinto il nostro cervello a ricablarsi: questa situazione ci porterà a allenarci a costruire una maggiore tolleranza dell’incertezza.
Guarda qui il video della Bbc.