“Credo che nel territorio del Friuli-Venezia Giulia ci siano delle azioni comuni da costruire con la salute globale del territorio, quindi non specificatamente di salute mentale, cercando di condividere con i servizi che si occupano dei minori, dei portatori di handicap, degli adulti anziani a domicilio i principi base della rivoluzione, che sono stati quelli della libertà”.
La rivoluzione di cui parla Paola Zanus, direttrice del Centro di salute mentale (Csm) di Gorizia, è quella portata avanti da Franco Basaglia e culminata il 13 maggio 1978 con la legge 180, la prima legge al mondo ad aprire le porte dei manicomi e a ridare dignità e diritti alle persone che vi erano rinchiuse.
A Gorizia, come nella maggior parte del territorio regionale, l’influenza del pensiero basagliano nel campo della salute mentale è ancora forte. Porte aperte 24 ore, otto posti letti quasi mai tutti occupati, ricoveri di massimo una settimana. Le persone seguite sono circa 2.000 e un centinaio di pazienti entra ed esce ogni giorno. Entrando nel Csm di Gorizia, che si trova nel “Parco Basaglia”, il giardino dell’ex manicomio, il cui muro faceva parte di un pezzo del confine orientale che separava l’Italia dalla ex-Jugoslavia, la prima cosa che si vede è una figura in cartone a grandezza quasi naturale dello psichiatra della 180.
“Dobbiamo cercare di trasferire tutto il discorso della non contenzione nei grandi reparti ospedalieri e nelle case di riposo”, continua Zanus. “Così come è importante tutto il discorso dell’integrazione tra culture e tra saperi disciplinari diversi – medici, infermieristici, psicologici, sociali – che necessariamente devono confrontarsi con i luoghi di vita delle persone, e quindi spostarsi, uscire dagli ambulatori e dalle istituzioni per visitare i rioni, oltre che le case, e immaginare percorsi di salute che siano prima di tutto percorsi di comunità”. Fondamentale, infatti, è che una persona sia presa in carico nella sua interezza, con un progetto di cura personalizzato, che includa anche soluzioni abitative e un graduale reinserimento nell’ambito lavorativo.
Nel 2017, l’anno a cui si riferisce l’ultimo Rapporto sulla salute mentale in Italia, divulgato dal Ministero della Salute, sono state assistite per problemi psichiatrici più di 800 mila persone. E di queste, più di 300 mila hanno avuto accesso ai servizi per la prima volta nella loro vita. Ma poiché la legge 180 di Basaglia ha demandato la sua attuazione alle regioni oggi assistiamo a risultati di cura molto diversificati nel territorio nazionale.
Se Los Angeles è il peggior posto per ammalarsi, Trieste è il migliore.
Se il Friuli-Venezia Giulia, forte di una storia che ha creato una grande identità, ha sempre mantenuto un ruolo di leadership, nella maggior parte delle Regioni i servizi sono ancora decisamente carenti. “Nel resto dell’Italia le realtà sono differenti e le organizzazioni sanitarie pubbliche dell’area della salute mentale dovrebbero seriamente confrontarsi con il mondo del privato convenzionato, esercitando un’azione di controllo intelligente sul privato. Perché in molti territori italiani assorbe troppe risorse a scapito dei servizi territoriali e della costruzione di progetti di cura aperti”, afferma Paola Zanus. Ancora una volta, infatti, il Friuli-Venezia Giulia è l’unica regione in cui non esiste il privato nella salute mentale.
Migliaia sono stati gli psichiatri, i politici, gli operatori venuti da tutto il mondo a studiare il modello di psichiatria del Friuli-Venezia Giulia, rappresentato al meglio nelle città di Trieste e Gorizia. Anche Allen Frances, curatore del Manuale diagnostico di psichiatria, è arrivato qui da Los Angeles e una volta tornato in California ha scritto che “se Los Angeles è il peggior posto per ammalarsi, Trieste è il migliore”. E se arrivano da tutto il mondo a vedere il lavoro che è stato fatto, nonostante ci sia ancora tanto da fare, un motivo c’è. Oggi non c’è niente che sia come prima. Il malato di mente, dopo Basaglia, non è più un malato di mente, ma un cittadino, una persona, che vive l’esperienza del disturbo mentale in un campo di possibilità enormi. Ma c’è il rischio che si possa tornare indietro?
“Credo che sia un rischio reale rispetto a tutti i diritti conquistati. Io credo che il manicomio non stia necessariamente nei muri e nelle recinzioni, il manicomio è nella testa della gente”, prosegue la direttrice del Cms di Gorizia. “Per questo c’è il rischio di costruire luoghi chiusi, autoregolamentati, luoghi in cui in nome di un allarme o di un’emergenza si chiudono le porte e piano piano si abdica all’idea di partecipazione delle persone al proprio percorso di cura, di libertà e di verifica comune delle cose tra operatori e persone. Ma anche la legge 194 corre lo stesso rischio se i medici obiettori di coscienza all’interruzione di gravidanza aumentano entro una certa percentuale”.
Io credo che il manicomio non stia necessariamente nei muri e nelle recinzioni, il manicomio è nella testa della gente.
Il rischio, poi, sta anche nella concretezza delle risorse. Se, ad esempio, non esistono le auto per fare i servizi territoriali, se non esistono equipe multidisciplinari vere che si misurano col tempo reale e non con quello ambulatoriale, tutte le pratiche territoriali non possono essere mantenute. Ma attenzione, sottolinea Zanus, non c’è necessariamente bisogno di più risorse, ma di più strumenti e di idee differenti. “Il manicomio può riprodursi anche all’interno dei servizi territoriali in cui c’è il rischio di difendere sempre e comunque il proprio operato e ci si affeziona alle persone che si ha in carico senza cercare di emanciparle da sé”.
Non resta, quindi, che attuare la seconda parte della 180: evitare che un servizio territoriale riproduca le follie del manicomio. Perché come mi disse Luciano Carrino, psichiatra collaboratore di Franco Basaglia che ha quindi vissuto la rivoluzione in prima persona, “il manicomio è anche fuori, è oppressione, è violenza familiare, è incapacità di ascolto”.