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Aranciate amare


Ci sono malattie che – anche se per certi aspetti sono pure un po’ contagiose, ma lo vedremo meglio in qualche post successivo – non possiamo attaccarci gli uni con gli altri, per così dire: scompenso cardiaco, asma o broncopneumopatia ostruttiva, artrosi. In tempi di pandemia, il fatto che problemi di salute di questo tipo non siano contagiosi può farci tirare un respiro di sollievo. Ma dura poco. Spesso causate da fattori di rischio su cui molto spesso potremmo intervenire – per questo li definiscono “modificabili” – come pressione alta, colesterolo a palla o sedentarietà, le malattie non trasmissibili sono spesso chiamate “malattie dello stile di vita” dato che hanno origine nei nostri comportamenti alimentari, nel fatto che ci muoviamo poco, nel consumo di alcol o nel fumo di tabacco. Tuttavia, questi comportamenti sono sempre più riconosciuti come scelte socialmente costruite fortemente influenzate da interessi commerciali. Infatti, sempre in tema di definizioni, a proposito di questi problemi di salute qualcuno parla di “epidemie industriali” o “malattie del profitto” e il pensiero di chi non è più giovane va al dibattito che attraversava la sanità italiana cinquant’anni fa, ai tempi dell’approvazione della riforma sanitaria. Dopo un percorso non breve – di cui converrebbe ricordarsi, però – siamo arrivati all’oggi e alla definizione di “determinanti commerciali della salute” ormai da molti considerati ugualmente importanti dei più conosciuti “determinanti sociali di salute”.

“Qualcuno parla di epidemie industriali o malattie del profitto”

La letteratura scientifica è abbastanza ricca. Li descrive come il risultato di un potere economico e politico sempre più forte e nelle mani di grandi aziende multinazionali, la cui azione entra raramente in rotta di collisione con l’attività di controllo dei governi che dovrebbero vigilare, per conto dei cittadini, sulle tendenze dannose per la salute individuale e di comunità.
Non sono pochi gli esempi di come il potere delle imprese influenzi il processo decisionale, con le aziende a volte direttamente coinvolte nelle scelte di salute pubblica (1). Buse e Hawkes hanno descritto un aspetto molto interessante: una sorta di peccato di omissione che suggerisce ai governi e alle agenzie regolatorie di tenere deliberatamente fuori dall’agenda politica argomenti scomodi che potrebbero determinare attriti o contenziosi tra pubblico e privato (2). Molti autori arrivano a ritenere che gli interessi del settore privato siano così potenti da prevalere quasi sempre sulla governance della salute pubblica e sulle misure di politica sanitaria che giudicheremmo più responsabili. Quello delle multinazionali alimentari e farmaceutiche è un potere sempre più forte ed è dovuto anche al cambiamento dei modelli del commercio e del consumo globale, all’aumento della domanda e alla conseguente sempre più capillare copertura del mercato planetario. Detta così sembra una cosa abbastanza distante dalla vita delle persone: conviene allora fare qualche esempio.

Prendiamo il caso, dunque, del congresso statunitense che dietro pressioni delle attività di lobbying delle aziende produttrici decise di soprassedere alla tassazione sulle bevande gassate zuccherate: troviamo tutto in un bel libro di Marion Nestle, Unsavory Truths (3).

Da una ventina d’anni – da quando iniziò a essere evidente come sovrappeso e obesità rappresentavano un problema molto grave di salute pubblica – le aziende produttrici di bevande gassate zuccherate iniziarono un’intensa attività di marketing basata anche sul finanziamento di studi sull’impatto del consumo di queste bevande sulla salute delle persone. Rispetto a studi simili indipendenti, era otto volte più probabile che quelli sponsorizzati dai produttori evidenziassero risultati tranquillizzanti sul ruolo dello zucchero. La strategia era quella di produrre più informazione possibile per bilanciare gli studi portati avanti autonomamente da università e centri di ricerca, e condizionare le decisioni regolatorie e del governo. Un ruolo importante era giocato – e ancora oggi continua a essere svolto – da fondazioni e organizzazioni pubblico-privato come l’International life science institute, che è stato diverse volte al centro di polemiche, anche con l’Organizzazione mondiale della sanità.

Ciò che trasforma un prodotto alimentare in una moda sono certamente le caratteristiche che lo rendono gradevole, ma ancora di più una strategia di marketing che difficilmente può fare a meno di testimonial famosi e convincenti. In un ambiente fortemente globalizzato, ma all’interno del quale hanno sempre molta importanza le abitudini locali, le persone capaci di orientare i consumi le troviamo nel mondo della medicina, dello spettacolo, dello sport. Equilibristi dei conflitti d’interesse, sono maestri di marketing e pubblicità di beni dannosi per la salute (4). Nessuna remora se il consumatore è un bambino (5, 6). Di un prodotto si pubblicizza la bontà, la gradevolezza al palato, l’immediatezza del consumo ma non basta: occorre anticipare le obiezioni di chi potrebbe osservare che quelle 330 calorie in tre cucchiai di crema al cioccolato e nocciole sono un po’ troppi o che un bicchiere di vino non fa buon sangue. Per disinnescare le critiche si ricorre a collaudate tattiche di marketing studiate per enfatizzare il ruolo dei fattori biologici, distraendo per quanto possibile l’attenzione dai consumi alimentari. In altre parole, quello che conta è “il metabolismo” o “la predisposizione genetica”, non quello che viene concesso al bambino per tenerlo buono davanti alla televisione o cosa c’è nel bicchiere di prosecco. Nella strategia complessiva l’industria cerca di evitare di entrare in contrapposizione con le istituzioni pubbliche: da qui i consigli non richiesti che leggiamo sulle bottiglie di birra o sui cartelloni che circondano il campo da gioco delle partite di Champions League (fai il bravo e bevi responsabilmente: alla tua salute noi ci teniamo). Non solo l’industria è alleata del governo: lo è anche dell’università e del mondo della ricerca: un’analisi degli scambi di e-mail ha documentato la sponsorizzazione della Coca-Cola Company di ricerche e conferenze scientifiche “per spostare la colpa della crescente incidenza dell’obesità e delle malattie legate alla dieta dai suoi prodotti alla scarsa attività fisica e alle scelte individuali” (7). È molto più comodo puntare il dito sulle abitudini dei singoli cittadini – magari scegliendo il proprio target tra le persone più vulnerabili (8) – che accettare che politiche più complessive disincentivano determinati consumi o ne favoriscano di più salubri.

L’attività di convincimento di funzionari governativi, parlamentari, partiti politici e associazioni di cittadini ostacola il varo di politiche pubbliche orientate a una maggiore salute dei consumatori. Il lobbismo – di questo stiamo parlando – è sempre più spesso inserito nei programmi di corsi di studio universitari – e viene utilizzato per mediare con la politica spesso anche per dissuadere dall’adozione di politiche per la salute pubblica che potrebbero minacciare i profitti aziendali. Funziona anche la minaccia di avviare dei contenziosi e battaglie legali contro i governi che provano ad attuare politiche che potrebbero ridurre i profitti di un particolare settore industriale. Fare affidamento sulle persone giuste, capaci di muoversi nei corridoi dei ministeri e della politica è essenziale e per questo servono le “porte girevoli” che annullano la separazione tra il governo e le imprese: basta sostituire il badge di funzionario pubblico con quello di “Visitatore” e si continua a sedere allo stesso tavolo in agenzie governative, commissioni, comitati, così che possa essere esercitata la necessaria e informatissima pressione sugli accordi commerciali internazionali e sulle attività regolatorie.

Beviamoci sopra

Le bevande zuccherate sono molto popolari: circa il 50% degli adulti statunitensi ne consuma almeno una al giorno (9). I poveri ne bevono di più: chi ha un reddito familiare inferiore a 25.000 dollari l’anno assume 200 calorie al giorno solo da bevande zuccherate, calorie che diventano 117 per chi guadagna 75.000 dollari. Forse anche per questo, da uno studio condotto presso il Columbia University Medical Center e l’Università della California San Francisco è venuto fuori che una tassa anche minima imposta sulle bevande zuccherate ne ridurrebbe il consumo di circa il 15% e ridurrebbe la prevalenza di obesità, diabete e malattie cardiovascolari. I risultati dello studio sono pubblicati online nel numero di gennaio 2012 di Health Affairs (10). In dieci anni la cosiddetta “tassa sul penny per oncia” potrebbe ridurre del 2,6% i nuovi casi di diabete, fino a 95.000 eventi coronarici, 8.000 ictus e 26.000 morti premature. Quanto risparmierebbe uno Stato grazie a un intervento di questo tipo? La stima dei ricercatori è di oltre 17 miliardi di dollari in un decennio di spese mediche evitate per gli adulti di età compresa tra 25 e 64 anni, oltre a generare circa 13 miliardi di dollari di entrate fiscali annuali. Un’altra valutazione ci dice che il sistema sanitario statunitense spende circa 1 trilione di dollari all’anno (e forse di più) per combattere gli effetti del consumo eccessivo di zucchero (11).

“La salute è una funzione del nostro comportamento e dell’ambiente in cui viviamo”

Secondo alcuni, la tassa sulle bevande zuccherate potrebbe rivelarsi una sorta di magic bullett contro un consumo dannoso. Ma non tutti sono convinti che la promozione della salute possa seguire strade del genere: “diversi decenni di iniziative di salute pubblica per ridurre le pratiche dannose dell’industria del tabacco e non solo hanno dimostrato che le strategie di controllo efficaci per le patologie causate da determinanti commerciali non dipenderanno da proiettili magici ma da pacchetti politici completi che si rivolgono agli attori presenti a diversi livelli sul mercato” (12). Un’azione efficace ha bisogno di un approccio integrato, non di provvedimenti isolati che porterebbero i sostenitori di strategie specifiche ad andare ciascuno per conto proprio: chi contrastando il fumo di tabacco, chi scoraggiando i consumi di bibite zuccherate, chi informando sull’inutilità di integratori o supplementi vitaminici, chi sollecitando le autorità a intervenire per il controllo della diffusione delle armi da fuoco. Servono alleanze tra associazioni di categoria, istituti di relazioni pubbliche, fondazioni e agenzie regolatorie. Questo difficilmente potrà avvenire se a livello di formazione specialistica – per esempio nelle scuole di specializzazione in igiene – il tema della promozione della salute non sarà affrontato e approfondito anche nelle sue implicazioni politiche. Allo stesso tempo, le scuole di sanità pubblica dovranno sviluppare e supportare iniziative interdisciplinari che riconoscano non solo la molteplicità delle metodologie di studio di queste dinamiche ma anche la necessità di competenze multidisciplinari all’interno di gruppi dove lavorino insieme medici, statistici, epidemiologi, psicologi, economisti.

La premessa è però quella di limitare – se non di azzerare – i condizionamenti industriali sulla ricerca e sulla politica. La ricerca indipendente è essenziale perché la produzione di prove rigorose e credibili può permettere alle agenzie regolatorie e di sanità pubblica di prendere decisioni a vantaggio dei cittadini. Far crescere i progetti di ricerca non sponsorizzati non è semplice ma è forse meno difficile di liberare la politica dai condizionamenti che generalmente la trattengono dall’avviare programmi efficaci di promozione della salute. Un grande problema è la tendenza a perdere di vista il contesto: un intervento di sanità pubblica deve sì considerare i singoli determinanti di rischio o di malattia, ma deve soprattutto analizzare, conoscere e affrontare le relazioni tra di essi. “Incoraggiare l’esercizio fisico in una popolazione riduce il rischio complessivo di obesità in quelle stesse persone? La risposta forse controintuitiva è «no»” avverte Sandro Galea (13), “perché la salute è una funzione del nostro comportamento e dell’ambiente in cui viviamo”. Inutile – e ingiusto – dire di muoversi a chi vive in una città priva di palestre o di spazi verdi. Inutile – e ingiusto – dire di non bere coca-cola a chi ha nella dolcezza di quel sorso una delle poche occasioni per compensare l’amarezza delle proprie giornate.

La tassa sull’aranciata è la soluzione semplice a un problema complesso. Colpevolizza le singole persone e assolve una politica che non riesce – o non vuole – combattere gli interessi che continuano a moltiplicare i determinanti di mercato della malattia.

Bibliografia
    1. Knai C, Petticrew M, Mays N, Capewell S, Cassidy R, Cummins S, Eastmure E, Fafard P, Hawkins B, Jensen JD, Katikireddi SV. Systems thinking as a framework for analyzing commercial determinants of health. The Milbank Quarterly. 2018 Sep;96(3):472-98.
    2. Buse K, Tanaka S, Hawkes S. Healthy people and healthy profits? Elaborating a conceptual framework for governing the commercial determinants of non-communicable diseases and identifying options for reducing risk exposure. Globalization and health. 2017 Dec;13(1):1-2.
    3. Nestle M. Unsavory truth. How food companies skew the science of what we eat. New York: basic Books, 2018.
    4. Madureira Lima J, Galea S. Corporate practices and health: A framework and mechanisms. Global Health. 2018;14(1):21-32.
    5. Millar JS. The corporate determinants of health: how big business affects our health, and the need for government action! Can J Public Health. 2013;104(4):e327–9.
    6. World Health Organization Regional Office for Europe, ed. Thematic paper 3: Good governance for the health and well-being of all children and adolescents. Paper presented at: Working together for better health and well-being: Promoting intersectoral and interagency action for health and well-being in the WHO European Region; 7–8 December 2016; Paris: World Health Organization; 2016.
    7. Wood B, Ruskin G, Sacks G. 2020. How Coca-Cola shaped the International Congress on Physical Activity and Public Health: an analysis of email exchanges between 2012 and 2014. Int. J. Environ. Res. Public Health 17(23):8996.
    8. Freudenberg N, Galea S. Corporate practices. In: Galea S, editor. Macrosocial determinants of population health. New York: Springer; 2007. p. 71–104.
    9. Allcott H, Lockwood BB, Taubinsky ID. Should we tax sugar-sweetened beverages? An overview of theory and evidence. J Economic Perspectives 2019;33(3), 202-27.
    10. Wang YC, Coxson P, Shen YM, Goldman L, Bibbins-Domingo K. A penny-per-ounce tax on sugar-sweetened beverages would cut health and cost burdens of diabetes. Health Affairs. 2012 Jan 1;31(1):199-207.
    11. Munroe D. Sugar Linked To $1 Trillion In U.S. Healthcare Spending. Forbes 2013; 27 ottobre.
    12. Lee K, Freudenberg N. Public health roles in addressing commercial determinants of health. Annual Review of Public Health. 2022 Apr 5;43:375-95.
    13. Galea S. Healthier. New York: Oxford University Press, 2018.

Questo post è il primo di una serie dedicata ai determinanti commerciali della salute. La seconda uscita puoi leggerla qui “Bevi che non ti passa”.

La foto è concessa in Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0) da Omar Bariffi ed è stata modificata.