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Anche l’intelligenza ha suoi limiti


Il quoziente intellettivo dell’umanità continuerà a crescere indefinitamente o abbiamo raggiunto i nostri limiti “fisici”? L’intelligenza artificiale è destinata in un futuro prossimo a surclassarci e a prendere il nostro posto? E poi, siamo convinti che il modo con cui si valutano le capacità intellettive delle persone sia davvero il migliore?

Alcuni psicologi e neuroscienziati di fama mondiale hanno provato a fare il punto della situazione in Will humans keep getting smarter?, una puntata della serie dedicata all’intelligenza umana di Reel, il canale video e documentari brevi della BBC che si occupa molto trasversalmente di argomenti che vanno dalle intuizioni sulla psiche umana alla scoperta di mondi segreti in tutto il pianeta: storia, economia, sesso, cultura, cibo, linguaggio, psicologia, scienza, non manca quasi niente. L’idea di fondo è comprimere in un video di pochi minuti una quantità di spunti sufficiente “a stimolare la curiosità e a spingere al cambiamento” (e qui pretende forse un po’ troppo).

Per oltre un secolo, quando è stato necessario misurare in qualche maniera l’intelligenza di una persona il metodo più usato è stato il Quoziente Intellettivo o più rapidamente QI. Quella del QI è una storia di successi e controversie. Commissionato dal Governo francese ad Alfred Binet all’inizio del Novecento per individuare i bambini con ritardi educativi, dimostrò fin da subito altre possibilità di applicazione. Lo stesso Binet fu molto restio a parlare di “quoziente intellettivo” (che all’inizio non si chiamava così) perché non considerava il suo sistema un test per misurare l’intelligenza. La scala di Binet però non tardò ad attraversare l’Atlantico per finire nelle grinfie degli psicologi americani che lo adottarono stabilendo che poteva essere una misura affidabile dell’intelligenza umana. Per gli studiosi d’oltreoceano il QI era un parametro innato, stabile negli individui ma variabile in base alle popolazioni e ai gruppi etnici.
Col tempo questa impostazione (che è comunque responsabile di imbarazzanti episodi di discriminazione, anche di “massa”) è stata superata. I ricercatori hanno capito che le persone hanno QI diversi perché il test misura soltanto l’intelligenza astratta, che dipende in modo molto significativo da quello che accade nei primi anni di vita, dall’ambiente familiare, dalla comunità di riferimento, dall’educazione e perfino dal tipo di alimentazione.

Le persone potrebbero diventare davvero più intelligenti se si concentrassero su sfide rilevanti come rendere il mondo un posto migliore

Insomma, a parte l’evidenza che le intelligenze sono di vario tipo (l’intelligenza emotiva, l’intelligenza pratica, quella creativa, la memoria a lungo termine della “saggezza”, ma l’elenco sarebbe troppo lungo) e che non a tutte è possibile assegnare una scala numerica, forse, come sostiene Robert Sternberg della Cornell University, è inutile in fondo dividersi sui motivi della crescita dell’QI nell’ultimo secolo (circa 30 punti di media nella popolazione generale) o sull’esistenza di un limite a questa crescita. È vero che si può far aumentare il livello intellettivo delle persone, ma “le persone potrebbero diventare davvero più intelligenti se si concentrassero su sfide rilevanti come rendere il mondo un posto migliore”.

Secondo Sternberg, la soluzione è in uno capovolgimento radicale. Abbandonare l’dea dell’intelligenza come fattore indipendente, individuale e predeterminato, una specie di corredo del singolo, per passare a qualcosa di più fluido. Nel mondo reale la maggior parte di noi lavora in gruppo o in team per risolvere problemi collettivi. Il punto quindi non è quale punteggio hai di QI o di intelligenza creativa ma come usi le tue capacità per il bene della società. Con una concezione di questo tipo perde di senso la domanda se il l’intelligenza umana ha raggiunto o sta raggiungendo un limite… perché questo limite potrebbe non esserci.

Per qualcuno al contrario, dati alla mano, non c’è ragione di credere che l’uomo possa diventare più intelligente di così. Anzi, Gavin Evans (Birkbeck University) crede invece che le possibilità del cervello umano siano sostanzialmente le stesse dai tempi dei primi Homo sapiens. In sostanza, 100.000 fa (possibilità tecnologiche ed educazione a parte), i nostri antenati “moderni” erano intelligenti più o meno come noi.

Non poteva mancare in una discussione su questi temi almeno un accenno a un’idea di intelligenza più inclusiva che comprenda anche la neurodiversità (quella delle persone autistiche per esempio). Da Bonnie Evans (Queen Mary, University of London), arriva un appello a evitare che le capacità neurologiche si trasformino in un pretesto per escludere dalla nostra società chi funziona in modo diverso dalla maggior parte. La scelta di integrare invece di separare ha tra l’altro il vantaggio di espandere le possibilità dell’uomo di agire nei confronti della realtà. Tutte le persone, comprese quelle con intelligenze “altre” sono potenzialmente in grado di pensare e dare forma un mondo nuovo (la mente Asperger di Greta Thunberg ci avrà pure insegnato qualcosa).

L’evoluzione limita l’intelligenza?
I compromessi sono una costante dell’evoluzione. Quanto sarebbe bello essere tutti alti almeno sei piedi (o un metro e ottantadue per restare al sistema metrico-decimale), ma la maggior parte dei cuori non riesce a spingere il sangue così in alto. Questo è il motivo banale per cui gli esseri umani non raggiungono in genere quell’altezza. Proprio come ci sono compromessi evolutivi per i tratti fisici, ci sarebbero compromessi anche per l’intelligenza.

Se pensi che gli umani abbiano capacità cognitive illimitate – a differenza di tutti gli altri animali – non hai del tutto digerito l’intuizione di Darwin che l’Homo sapiens fa parte del mondo naturale.

Secondo una teoria, per esempio, le dimensioni del cervello dei bambini sarebbero limitate da quelle del bacino della madre; cervelli più grandi potrebbero significare più morti durante il parto e il bacino non può cambiare sostanzialmente senza che cambi contemporaneamente il modo in cui stiamo in piedi e camminiamo.

Farmaci come il Ritalin e le anfetamine aiutano le persone ad aumentare il livello di attenzione, ma le persone che non hanno problemi da quel punto di vista possono avere conseguenze negative se assumono quel tipo di farmaci. Analogamente, può sembrare a tutti una cosa buona avere una memoria nettamente migliore, ma ricordi eccessivamente vividi possono complicare non poco la vita delle persone.
Anche l’aumento generalizzato dell’intelligenza in una popolazione può causare problemi. Gli ebrei ashkenaziti, che hanno in media un QI molto più alto della popolazione generale europea, sono afflitti da malattie ereditarie come la malattia di Tay-Sachs che colpiscono il sistema nervoso. È possibile che l’aumento della potenza cerebrale sia alla base della crescita della malattia?

Il cervello degli esseri umani è il prodotto di un’evoluzione lunga e non guidata, cieca a dirla tutta. È progettato per risolvere problemi pratici (sopravvivenza e riproduzione soprattutto) e tendenzialmente i misteri del cosmo escono un po’ fuori dal suo seminato. Da questa riflessione generale, alcuni filosofi sono stati portati ad abbracciare una strana forma di pessimismo che si può riassumere così: esistono cose che sicuramente non capiremo mai. Insomma l’intelligenza umana sbatterà prima o poi contro un tetto molto solido… se non l’ha già fatto: la scienza, secondo i “misteriani”, non è in grado di fornire tutte le Risposte e non lo sarà mai.

Se pensi che gli umani abbiano capacità cognitive illimitate – a differenza di tutti gli altri animali – non hai del tutto digerito l’intuizione di Darwin che l’Homo sapiens fa parte del mondo naturale”. Un bell’articolo su Conversation prova a far luce su questa tensione costante e così umana tra destino e biologia ripercorrendo le tappe della corrente di pensiero che ha trasformato questa massima di Noam Chomsky in una teoria.

Guarda qui l’episodio di Reel della BBC dedicato all’intelligenza umana.