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Ammalarsi di calcio: Sla, tumori, Micoren e altre storie


Alcuni studi hanno dimostrato che gli ex calciatori corrono più rischi di ammalarsi di malattie neurodegenerative e di demenza, anche se è controversa la causa di questo rischio aumentato. Ma i pericoli a lungo termine per la salute dei giocatori si fermano davvero qui? Quando anche Gianluca Vialli si è arreso alla sua malattia a poco meno di un mese dalla morte di Siniša Mihajlović, un altro grande giocatore colpito da tumore, nel mondo del calcio è serpeggiato lo stesso sentimento di paura e di incertezza nato anni prima dal ripetersi dei casi di SLA (sclerosi laterale amiotrofica) tra gli ex-calciatori.

C’è un fotogramma simbolo, un’immagine che non si dimentica facilmente nella storia che ha portato al riconoscimento della Sla (e di altre malattie neurodegenerative) come rischio professionale per i calciatori. 8 ottobre 2008. Allo stadio Franchi di Firenze si celebra, con un Fiorentina-Milan infarcito di vecchie glorie, il tributo a Stefano Borgonovo, ex attaccante della Fiorentina degli anni Novanta colpito dalla malattia alcuni anni prima e progressivamente costretto all’immobilità dalla paralisi. Quella sera al Franchi c’è anche Roberto Baggio, grande amico ed ex compagno di squadra di Borgonovo, che spinge la sua carrozzina su e giù per il campo, scherza con l’amico di una vita, partecipa al suo dolore e alla speranza che la Sla possa essere sconfitta anche grazie al coraggio di Borgonovo di mostrarsi malato.

La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia rara (1-3 casi ogni centomila abitanti) che colpisce il sistema nervoso centrale portando progressivamente a una paralisi totale, per cui non esiste ancora una cura. Le conseguenze della malattia hanno risvolti particolarmente drammatici perché, anche se quasi tutti i muscoli vengono bloccati, la mente resta vigile e quindi consapevole di quello che accade. Della Sla si sa con certezza che è causata dalla degenerazione dei motoneuroni, ma che cosa causi questa degenerazione al momento non è stato stabilito. L’associazione tra la malattia e lo sport ha origini piuttosto lontane, è stata suggerita quasi da subito ma le conferme sono arrivate col tempo. Un ruolo decisivo da questo punto di vista l’ha avuto uno studio italiano del 2020 condotto dai ricercatori del Mario Negri. Su una consistente mole di dati – più di ventitremila giocatori di calcio di serie A, B e C dal 1959 al 2000 – dallo studio sono emersi 34 casi di Sla, quindi un’incidenza approssimativamente doppia rispetto a quella nella popolazione generale. Il rischio maggiore riguardava i più giovani, sotto i 45 anni, e in particolare i centrocampisti che militavano in serie A. In più la malattia esordiva circa 20 anni prima rispetto alla popolazione generale. Ma perché i calciatori sono più esposti al rischio?

Una delle ipotesi che sono state fatte ha a che fare con gli episodi traumatici ripetuti. L’incidenza aumentata della Sla riguarda gli sport di contatto come il calcio, il football americano e il baseball, mentre il basket o il ciclismo ne sono esenti. Del football americano si parla da diversi anni, ed è intuitivo il peso che hanno in quello sport i contrasti di gioco, a volte durissimi. Nel caso del calcio il principale imputato è il colpo di testa, un gesto tecnico che è parte integrante del gioco e si ripete con regolarità sia durante le partite sia durante gli allenamenti. Alcune federazioni, in particolare quella inglese e quella scozzese, di fronte alle crescenti quantità di prove sul legame tra microtraumi cranici e malattie neurodegenerative, hanno deciso di correre ai ripari, almeno per provare a contenere il fenomeno. Dal 2021 nel corso degli allenamenti della Premier League sono consentiti al massimo 10 colpi di testa di “forza superiore” (che intercettano lanci da più di 35 metri) a settimana; sono state introdotte sostituzioni per commozione cerebrale (in sostanza c’è un cambio aggiuntivo per un giocatore con una sospetta lesione cerebrale, come è avvenuto anche negli ultimi Mondiali); da novembre 2022 ai calciatori scozzesi è stato vietato di colpire la palla di testa dal giorno prima fino al giorno dopo la partita ufficiale, mentre agli under 12 i colpi sono proprio proibiti. Misure insolitamente drastiche che sul lungo periodo fanno intravedere una vera e propria rivoluzione nelle regole del calcio. A scopo dimostrativo è stata già giocata una partita con il divieto di colpo di testa, un evento promosso da Head for Change, l’organizzazione no profit fondata dalla famiglia dell’ex difensore del Middlesbrough Bill Gates, a cui è stata diagnosticata una probabile encefalopatia traumatica cronica nel 2017.

“Troppe malattie tra i giocatori. Bisogna approfondire”

Le altre ipotesi sul possibile collegamento tra malattie neurodegenerative e calcio chiamano in causa l’abuso di farmaci antinfiammatori o i pesticidi e gli erbicidi comunemente usati per la manutenzione dei campi di calcio. In entrambi i casi però mancano evidenze degne di nota ad avvalorare le tesi. Ma la leucemia di Siniša Mihajlović e il tumore neuroendocrino del pancreas di Gianluca Vialli hanno attivato altri timori sui rischi a lungo termine per la salute dei professionisti del calcio. Un coro di voci preoccupate ha cominciato a farsi strada su internet e le pagine dei giornali. “Troppe malattie tra i giocatori. Bisogna approfondire”, ha dichiarato Claudio Lotito senatore di Forza Italia e presidente della S.S. Lazio. Frasi che seguono di poco e fanno eco a quelle di Dino Baggio, ex Juventus, Inter, Parma e Torino, “Bisognerebbe investigare un po’ sulle sostanze prese in quei periodi”, dell’ex portiere Lamberto Boranga (oggi medico sportivo), “Ho visto colleghi prendere valanghe di Micoren e preparatori atletici muoversi come santoni”, di Marco Tardelli, campione del mondo nell’82, “Prendevamo farmaci senza discutere. Io? Spero di essere fortunato”, e di Enrico Castellacci, presidente dell’Associazione italiana Mmdici del calcio: “In passato medici sportivi erano amici dei presidenti”.

“Prendevamo farmaci senza discutere. Io? Spero di essere fortunato”

I calciatori hanno paura, soprattutto alcuni. Gli anni Settanta, Ottanta e Novanta sono stati la stagione dei farmaci facili, somministrati senza troppe cautele (anche perché considerati a tutti gli effetti sostanze in regola in quel periodo) da medici sportivi compiacenti, legati a doppio filo ai presidenti delle società e quindi disponibili ad aiutarli nella ricerca della prestazione ad ogni costo. Uno dei farmaci più usati era il Micoren, un analettico respiratorio pensato per le persone con asma e pressione bassa, che serviva “spezzare il fiato” velocemente e preventivamente. Il giocatore in sostanza si ritrovava già a inizio partita nella condizione di offrire il massimo della sua capacità respiratoria. Come per ogni farmaco erano da mettere in conto effetti collaterali, in particolare alle dosi massicce che venivano somministrate ai giocatori, ma il consumo di Micoren era così generalizzato da non destare troppi sospetti all’epoca. Insomma, se lo prendono tutti, male non può fare. Anche rispetto al pericolo farmaci c’è un caso di scuola a cui è andato il pensiero dopo le morti di Mihajlovic e Vialli. Bruno Beatrice si ammala nel 1985 di leucemia linfoblastica acuta, si è appena ritirato. Anche altri calciatori della Fiorentina, la squadra in cui giocava, moriranno prematuramente. La procura di Firenze ipotizza il reato di omicidio preterintenzionale nei confronti dell’allenatore Carlo Mazzone, ma i giudici archivieranno l’indagine per prescrizione. Eppure non è stato dimostrato nessun collegamento tra Mihajlovic, Vialli e Beatrice. E stabilire anche soltanto “una correlazione tra una sostanza dopante e una malattia è quasi impossibile”, spiega Boranga.

Di fronte ai rischi insiti nell’uso di qualsiasi sostanza, soprattutto a dosi elevate, dovrebbe valere il principio di precauzione che vale per qualsiasi persona. “Non esistono ad oggi prove scientifiche che confermino un legame tra i farmaci di cui parlano oggi giocatori e medici sportivi e i tumori. Questo dobbiamo ribadirlo per onestà intellettuale. È altrettanto chiaro che l’abuso di qualsiasi farmaco è sempre un grosso rischio in sé e questo non sarebbe giusto sottovalutarlo”, è la conclusione di Castellacci.