“Se non continuiamo ad aumentare il nostro impegno per cambiare le dinamiche di questa epidemia, ne perderemo il controllo. Le malattie infettive sono malattie insolite: se, quando stanno per capitolare e se ne ha finalmente il controllo, si crede di aver fatto abbastanza e di potersi dedicare ad altro, quelle si riaffacciano. Lo abbiamo visto con la malaria, lo abbiamo visto con la tubercolosi e non vogliamo vederlo accadere anche con l’Hiv”.
Il monito è chiaro: non abbassare la guardia nella lotta contro l’Aids/Hiv ma anzi continuare a spingere sull’acceleratore per trovare vaccini, cure e soprattutto per implementare al massimo le opzioni esistenti. A darlo, direttamente da Amsterdam dove oggi si chiude la 31° International AIDS Conference, è Anthony Fauci.
Fauci oggi ricopre la carica di direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases ed è un veterano della lotta all’Aids, in prima fila sin dall’inizio dell’epidemia nella primavera-estate del 1981. Allora, quando ancora il nome Aids non era stato coniato, lui era un virologo quarantenne che cominciava a leggere sulle rivista specializzate casi studio di una strana patologia che colpiva i giovani omosessuali negli Stati Uniti.
“Quello si rivelò essere un momento di svolta nella mia carriera”, ricorda in un’intervista al Journal of the American Medical Association. “Ma come tutti gli altri non avevo idea di cosa si trattasse”. Da allora 70 milioni di persone al mondo sono state infettate dal virus. La metà sono morte e oggi 37 milioni di persone convivono con la malattia. Di queste 21,7 milioni seguono una terapia antiretrovirale che non solo ne garantisce la sopravvivenza, ma le rende non contagiose e quindi non pericolose per i loro potenziali partner sessuali.
In teoria, abbiamo degli strumenti che se propriamente implementati potrebbero porre fine all’epidemia.
Questo è forse un’informazione non nota a tutti – una persona sieropositiva in terapia, in cui la carica virale è ormai non rilevabile nel sangue, è anche non contagiosa, ovvero non trasmette il virus – ma Fauci tiene a sottolinea spiegando spiegando che “in teoria, abbiamo degli strumenti che se propriamente implementati potrebbero porre fine all’epidemia”.
“Noi sappiamo che se trattiamo una persona sieropositiva e ne portiamo la carica virale al di sotto della soglia rilevabile gli salviamo la vita. Ma al di sotto di quella soglia, quella persona sieropositiva virtualmente non può trasmettere il virus al suo o alla sua partner sessuale”, spiega chiaramente l’infettivologo. “Quindi in teoria, e la teoria è ben lontana dalla realtà, se potessimo individuare ogni persona sieropositiva al mondo e sottoporla alla terapia potremmo porre fine all’epidemia anche domani, perché nessuno trasmetterebbe il virus a un altro”.
Se al potere della terapia antiretrovirale si aggiunge quello della cosiddetta PrEP, la profilassi pre esposizione che protegge i soggetti che ne fanno uso al 95 per cento da una possibile infezione da Hiv, e quello della PEP, profilassi post esposizione, si capisce il rimpianto nella voce di Fauci quando poi ammette che: “Questo non avverrà, a causa della natura umana, dei sistemi sanitari e delle difficoltà a raggiungere alcune specifiche popolazioni”. Si assiste infatti a quello che il medico statunitense definisce un “implementation gap”, che andrebbe colmato cominciando a rendere routine il test per l’Hiv e rendendo universale l’accesso alle terapie.
Questo implementation gap impedisce di porre fine all’epidemia con gli strumenti oggi a disposizione e rende, secondo Fauci, ancora più importante il lavoro dei ricercatori che cercano di mettere a punto un vaccino. In questo campo oggi i diversi gruppi di ricerca lavorano seguendo due cosidetti “approcci complementari”.
“Il primo è un approccio empirico”, spiega il virologo. “Si prova un prodotto, si osserva se riesce a scatenare un qualche tipo risposta immunitaria efficace nel corpo – cosa che non avviene naturalmente nelle infezioni da Hiv – e in caso questo avvenga si lavora per amplificare e migliorare questa risposta sanitaria”. Ne è un esempio un promettente studio presentato durante la conferenza e pubblicato sul Lancet proprio pochi giorni prima dell’apertura dei lavori.
Nello studio in questione, i ricercatori guidati da Dan Barouch, direttore del Center for Virology and Vaccine Research al Beth Israel Deaconess Medical Center e docente presso la Harvard Medical School di Boston hanno sperimentato un vaccino cosiddetto a mosaico – realizzati con pezzi provenienti da diversi ceppi virali. Una combinazione particolare di questo vaccino è riuscita a scatenare una risposta immunitaria – sia negli esseri umani sia, soprattutto, nelle scimmie – tale da giustificare la pianificazione di ulteriori sperimentazioni. Questa risposta infatti è il primo passo, necessario ma non sempre sufficiente, nello sviluppo di un vaccino.
A questo approccio empirico si accompagna poi uno più teorico. In questo si assume che ci sarà bisogno di sviluppare anticorpi neutralizzanti, gli agenti che di solito proteggono il corpo dalle infezioni ma che le persone colpite da Hiv non producono in maniera molto efficace naturalmente. Per svilupparli e provocarne l’azione, si sta cercando di individuare e ricreare i componenti della corazza esteriore del virus da usare come agenti immunogeni per indurre la risposta degli anticorpi. “Siamo ancora all’inizio di questa strada”, conclude Anthony Fauci, “stiamo cercando di individuare la forma corretta di questa corazza da usare come agente immunogeno e vedere se effettivamente si scatena questa risposta”.
Qui il video con l’intervista a Anthony Fauci.