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Le quattro parole di Taiwan contro lo strapotere della Cina


Domenica scorsa in Cina ci sono state le elezioni presidenziali e il partito progressista le ha vinte nettamente con il 57 per cento  delle preferenze per la sua candidata Tsai Ing-wen. Il partito nazionalista ha ammesso la sconfitta e per i prossimi quattro anni il paese sarà governato dalle forze del Partito Democratico Progressista.

Ovviamente non stiamo parlando della Repubblica Popolare Cinese, quella con capitale Pechino e un regime comunista. Lì le uniche elezioni che contano sono quelle fittizie per eleggere il segretario del partito, già accuratamente scelto dalle gerarchie comuniste. Le elezioni in questione sono quelle della Repubblica di Cina, nota ai più come Taiwan.

La presidente uscente Tsai Ing-wen è stata rieletta con una larga maggioranza, dopo quattro anni al governo dell’isola. I due partiti principali che si fronteggiavano erano il Partito Democratico Progressista e il Kuomintang – o partito nazionalista.

Vista con gli occhi occidentali può sembrare la consueta sfida tra progressisti e conservatori ma a Taiwan il vero polarizzatore della vita politica è un altro: il rapporto con la vicina Repubblica Popolare Cinese, che ritiene che Taiwan sia una sua provincia. Taiwan conta l’1,6 per cento della popolazione della Repubblica Popolare: i rapporti di forza sono sbilanciatissimi e come relazionarsi con l’invadente vicino è la questione centrale di tutta la politica taiwanese.

Nelle elezioni della scorsa settimana il Partito Democratico Progressista rappresentava il punto di vista autonomista, quello che vuole una separazione netta dalla Cina continentale e dal suo regime autoritario – sebbene non un’indipendenza formale che sarebbe inaccettabile a Pechino. Il Kuomintang invece era il partito più propenso a un progressivo avvicinamento a Pechino, pur senza spingersi a proporre una totale riunificazione (e questo è veramente un paradosso della Storia, dato che il Kumonintang altro non è che il Partito Nazionalista che governò la Cina fino al ‘49, quando fuggì a Taiwan dopo la presa di potere dei comunisti).

Queste elezioni hanno mostrato che il popolo taiwanese spera che la comunità internazionale sarà testimone del suo impegno nel confronto dei valori democratici

Che il rapporto con Pechino fosse il cuore dei programmi elettorali lo si è visto anche dal discorso di vittoria tenuta da Tsai Ing-wen. Nel suo comizio, subito dopo aver saputo i risultati, Tsai si è rivolta a due interlocutori, parlando a entrambi della questione dei rapporti con la Cina.

In primo luogo ha parlato alla comunità internazionale, dicendo che “queste elezioni hanno mostrato che il popolo taiwanese spera che la comunità internazionale sarà testimone del suo impegno nel confronto dei valori democratici e che rispetterà la nostra identità nazionale. Ci auguriamo inoltre che a Taiwan sarà data l’opportunità di partecipare alle relazioni internazionali”.

Il richiamo alle relazioni internazionali non è casuale: uno dei mezzi di Pechino per far pressione su Taiwan è proprio quello di tagliarla fuori dai rapporti con gli altri Stati, indebolendo la sua presenza sulla scena internazionale.

Il secondo interlocutore del discorso di Tsai non poteva quindi essere che lei, l’incombente Cina continentale: “Oggi voglio ancora rivolgermi alle autorità di Pechino per ricordare loro che pace, parità, democrazia e dialogo sono la chiave per delle relazioni pacifiche tra gli Stretti (di Taiwan) e uno sviluppo stabile e di lungo periodo. Queste quattro parole sono l’unico sentiero che avvicina e beneficia entrambi i nostri popoli. ‘Pace‘ significa che la Cina deve abbandonare le minacce di uso della forza nei confronti di Taiwan. ‘Parità‘ significa che nessuna delle parti dello Stretto di Taiwan dovrebbe negare il fatto dell’esistenza dell’altro. ‘Democrazia‘ significa che il futuro di Taiwan dovrà essere deciso dai 23 milioni di persone che lo abitano. ‘Dialogo‘ significa che dobbiamo essere in grado di sederci e discutere i futuri sviluppi delle relazioni tra gli Stretti”.

Spero anche che le autorità di Pechino capiscano che la democratica Taiwan e il nostro governo democraticamente eletto, non cederanno a minacce e intimidazioni. (…) I risultati di queste elezioni hanno reso questa risposta chiarissima”, ha concluso la neo-rieletta Presidente.

Non c’è molto da aggiungere a quello detto da Tsai Ing-wen, l’atteggiamento battagliero del suo partito e della sua campagna elettorale è tutto confluito nel suo discorso della vittoria. C’è un dettaglio che vale la pena notare: Tsai fa riferimento ai rapporti tra due popoli. Considerare il popolo taiwanese e quello cinese come due popoli separati è il massimo a cui può spingersi un leader autonomista senza arrivare a usare la parola “indipendenza”. E va da sé che si tratta di una scelta politica; gli abitanti di Taiwan sono stati sotto la sovranità cinese per secoli e non è certo un’ovvietà dire che si tratti di due popoli diversi (per dare l’idea: il cinese mandarino è tuttora la lingua ufficiale di Taiwan).

Spero anche che le autorità di Pechino capiscano che la democratica Taiwan e il nostro governo democraticamente eletto, non cederanno a minacce e intimidazioni.

È un dettaglio, ma pur sempre un dettaglio importante nel mondo politico dell’estremo oriente, dove i toni sono sempre contenuti e ogni parola è ben pesata.

Con queste elezioni Taiwan si allontana quindi dalla Cina, spinta anche dall’esperienza delle proteste di Hong Kong, che dimostrano che Pechino è sprovvista delle categorie politiche (e morali) per trattare con le democrazie senza distruggerle. E per Pechino queste elezioni sono uno smacco non indifferente: all’inizio di un decennio che porterà la Cina a consolidare la sua posizione di super potenza una piccola isola nella sua periferia le ricorda che non tutto le è concesso.