“L’articolo 580 corrisponde a una realtà clinica, biologica, terapeutica completamente diversa dalla nostra. Un uomo tetraplegico e cieco nel 1935 sarebbe morto dopo poco. Oggi i medici lo possono tenere in vita per un tempo quasi indeterminato. Allora io le dico: se io fossi tetraplegico e cieco pregherei una persona misericordiosa di porre fine ad un essere capace solo di ingurgitare ed espellere il cibo. Non siamo qui per questo. Non siamo fatti per vivere come vegetali. Siamo qui per cercare di vivere con dignità e consapevoli di noi stessi. Quindi ben venga l’aiuto al suicidio”.
A dirlo è Corrado Augias, ospite a Cartabianca di Bianca Berlinguer, proprio il giorno prima della sentenza della Corte Costituzionale sul caso di Marco Cappato, il radicale accusato di avere incitato e aiutato Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, a suicidarsi. Rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale nel 2014, dj Fabo si era sottoposto a diverse cure e trattamenti sperimentali, che non avevano dato i risultati sperati. Le sofferenze intollerabili che era costretto a sopportare lo hanno portato alla convinzione di voler morire dignitosamente.
Per questo si era rivolto all’Associazione Luca Coscioni e in particolare a uno dei suoi membri, Marco Cappato, promotore della campagna “Eutanasia legale”. Subito hanno lanciato un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sappiamo che non spetta a lei approvare le leggi, le chiediamo però di intervenire affinché una decisione sia presa, per lasciare ciascuno libero di scegliere fino alla fine”. All’appello, però, non è arrivata una risposta.
Così, dopo anni di sofferenze, nel febbraio 2017 Cappato ha attraversato le Alpi con dj Fabo, e lo ha accompagnato nella casetta blu dell’associazione svizzera Dignitas, per procedere con il cosiddetto suicidio assistito, illegale in Italia. La mattina del 27 febbraio, Antoniani ha voluto lasciare un ultimo messaggio su Facebook: “Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato”. Poche ore dopo, Cappato avrebbe informato l’Italia intera della morte di Antoniani con un tweet: “Fabo è morto alle 11.40. Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo”.
Da quel giorno è iniziato il procedimento contro Marco Cappato – autodenunciatosi ai carabinieri di Milano – con l’accusa di aver violato l’articolo 580 del codice penale, che recita: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”.
Nel febbraio 2018 però, la Corte d’Assise di Milano aveva chiesto l’intervento della Corte Costituzionale per valutare la legittimità del reato di aiuto al suicidio, punito dalla medesima norma che disciplina l’istigazione al suicidio. Nell’ottobre dello stesso anno, il procedimento contro Cappato ha subito un’ulteriore battuta d’arresto dopo la sospensione della decisione della Corte fino a settembre 2019: l’obiettivo era lasciare il tempo necessario al Parlamento di legiferare in materia – come richiesto dalla stessa presidenza del Consiglio – dato che la norma in questione lascia prive di tutela situazioni meritevoli di protezione.
Secondo la Corte, infatti, “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze […] imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita […] con conseguente lesione del principio della dignità umana”.
Da oggi siamo tutti più liberi, anche chi non è d’accordo. È una vittoria della disobbedienza civile.
La legge, però, non è mai arrivata. Così lo scorso 25 settembre la Corte Costituzionale ha colmato – seppur in parte – il vuoto legislativo stabilendo che “non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Immediata la reazione di Cappato: “La Consulta ha deciso: chi è nella condizioni di Fabo ha diritto a essere aiutato” ha scritto in un tweet. “Da oggi siamo tutti più liberi, anche chi non è d’accordo. È una vittoria della disobbedienza civile, mentre i partiti giravano la testa dall’altra parte”.
Eutanasia e suicidio assistito nel mondo
La Corte Costituzionale, sul caso di Marco Cappato, si è espressa in merito al suicidio assistito, non sull’eutanasia: “La principale differenza tra eutanasia e suicidio assistito sta nella persona che esegue l’ultima azione”, scrive Nicola Davis sul The Guardian citando Richard Huxtable, professore di etica e diritto sanitario all’Università di Bristol.
Sia l’eutanasia sia il suicidio assistito sono volti a garantire una morte dignitosa ai pazienti costretti a convivere con sofferenze intollerabili: nel caso dell’eutanasia, a compiere l’ultimo atto non è il paziente ma un’altra persona, come il medico per esempio. Il suicidio assistito, invece, consiste nell’aiutare una persona che ha volontariamente deciso di porre fine alla propria vita: in questo caso è il paziente stesso a procurarsi la morte.
Diversi paesi prevedono la possibilità di ricorrere sia all’eutanasia che al suicidio assistito.Tra i più noti vi sono la Svizzera, i Paesi Bassi e il Belgio, considerato come lo stato più progressista in materia. Anche il Lussemburgo, il Canada e la Colombia ammettono entrambe le pratiche, sebbene con alcune differenze che riguardano il tipo di malattia o disabilità, oppure l’età del paziente.
In generale, il ricorso al suicidio assistito è più frequente di quello all’eutanasia. Secondo il The Guardian, “le Statistiche relative alla Svizzera mostrano che il numero delle persone che vivono nel paese e si sono sottoposte a suicidio assistito sono salite da 187 del 2003 a 965 del 2015”. Al contrario, “secondo i Regional euthanasia review committees del 2017, nei Paesi Bassi ci sono stati 6.585 casi di eutanasia volontaria o suicidio assistito, ovvero il 4,4 per cento del numero totale di decessi. Circa il 96 per cento dei casi è legato all’eutanasia, con meno del 4 per cento di suicidi assistiti”.
Come spiega la docente Agnes van Der Heide, il maggior ricorso all’eutanasia nei Paesi Bassi è riconducibile a un motivo in particolare: i medici ritengono di avere un maggiore controllo sulle dosi e sui tempi necessari per la procedura. In più, i pazienti che richiedono l’eutanasia si trovano spesso in una fase avanzata della malattia che non permette loro – dal punto di vista pratico – di assumere la sostanza letale, come avviene nel caso del suicidio assistito.
Il fatto che non tutti i paesi abbiano legalizzato queste pratiche di fine vita ha portato alla diffusione del cosiddetto di turismo dell’eutanasia: le mete principali sono il Belgio, considerata la “capitale mondiale dell’eutanasia”, legalizzata nel paese nel 2002, e la Svizzera, destinazione finale per la morte assistita, legale sin dal 1942. Secondo le statistiche dell’associazione Dignitas, una delle più conosciute in Svizzera e quella a cui si è rivolto lo stesso Antoniani – sono 221 le persone che nel 2018 hanno visitato il paese con questo scopo. Dal 1998, anno della fondazione di Dignitas, a oggi si sono registrati circa tremila i suicidi assistiti.
La situazione in Italia
In Italia, eutanasia e suicidio assistito sono vietati. Un passo avanti è stato fatto nel dicembre 2017, con l’approvazione da parte del Parlamento della legge sul testamento biologico, che permette di decidere in anticipo a quali terapie sottoporsi in caso di incapacità di fornire il proprio consenso. La legge sul testamento biologico disciplina anche la cosiddetta eutanasia passiva: nessun trattamento sanitario – comprese nutrizione e idratazione artificiali – può essere applicato senza il “consenso libero e informato” del paziente – che deve essere capace di intendere e di volere – che può decidere di rifiutare le cure, anche se questo lo porterebbe alla morte.
La vita è nostra, è una di quelle poche cose che ci appartengono.
La sentenza sul caso di Marco Cappato, di cui conosciamo solo una nota preliminare diffusa in un comunicato stampa, non è ancora stata depositata. Tuttavia, la decisione della Corte Costituzionale segna un prima e un dopo nella discussione stagnante sul tema, stabilendo già alcune condizioni per le quali questa pratica non è punibile né equiparabile all’istigazione al suicidio: il paziente “affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili”, deve essere “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale” e deve essere “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. In ogni caso la non punibilità è subordinata alle verifiche delle condizioni specificate e delle modalità di esecuzione da parte delle strutture sanitarie pubbliche.
Come già aveva fatto nel 2018, la Corte si è rivolta nuovamente al Parlamento sottolineando “un indispensabile intervento del legislatore” in materia. Nonostante l’Italia si sia trovata in più occasioni a dibattere sul tema – i casi più conosciuti sono quelli di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby – non esiste ancora un dibattito concreto sul fine vita. Ad oggi sono cinque le proposte depositate alla Camera sul fine vita: tra queste, anche quella di iniziativa popolare presentata nel settembre 2013 dall’Associazione Luca Coscioni.
Secondo il Rapporto Italia 2016 dell’Istituto di ricerca Eurispes, il 71.6 per cento degli italiani è favorevole al testamento biologico, il 60 per cento si dice a favore dell’eutanasia, mentre il 70 per cento è contrario al suicidio assistito. I dati raccolti affermano anche che il 40,6 per cento degli intervistati “è convinto che la Chiesa interferisca più di quanto dovrebbe su questioni etiche come aborto, eutanasia, fecondazione assistita, omosessualità, ecc. Al contrario, il 35,2 per cento ritiene che la Chiesa intervenga nella giusta misura e solo l’8,9 per cento pensa che lo faccia meno di quanto dovrebbe”.
In queste ultime settimane, infatti, le posizioni più ferme e contrarie ad una legge in materia sono proprio quelle del Papa e del presidente della Cei, il cardinal Bassetti, che richiede una revisione della legge sul Testamento Biologico, che preveda l’introduzione dell’obiezione di coscienza per i medici. Accanto alla Chiesa, anche le associazioni ultra-conservatrici e le onlus cattoliche si sono schierate contro la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Lo hanno fatto attraverso la campagna di affissioni di manifesti controversi, lanciata dall’associazione Pro Vita e Famiglia in diverse città d’Italia.
“La vita è nostra, è una di quelle poche cose che ci appartengono. Si tratta di prendere un concetto di libero arbitrio e di estenderlo fino alla fine della vita. È una cosa logica”, ha detto Corrado Augias a Cartabianca. Tuttavia, mentre i mezzi di comunicazione discutono sul tema, la politica continua a tacere. E pensare che il 23 settembre 2006, l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rispondeva così a una lettera inviatagli da Piergiorgio Welby, che invocava la necessità di una legge sull’eutanasia in Italia: “Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”.
Questi passi sono talmente enormi per una società che da soli possono cambiare il percorso di un paese.
Tredici anni dopo il quadro legislativo in materia non è cambiato, e ancora una volta è stata la Corte Costituzionale ad aprire uno spiraglio a quei diritti che dovrebbero essere garantiti dal Parlamento.
“Questi passi sono talmente enormi per una società che da soli possono cambiare il percorso di un paese” ha detto il vicedirettore de La Repubblica Sergio Rizzo riferendosi alla decisione della Corte sul fine vita. “Pensiamo al divorzio, all’aborto. L’Italia è diventata un Paese più civile, più libero e consapevole dei propri diritti quando sono state approvate queste leggi. Aborto e divorzio sono leggi fatte dal Parlamento, che rappresenta i cittadini. Il Parlamento serve per decidere quale deve essere il futuro di un Paese. Ma già con le unioni civili abbiamo visto che non era in grado di legiferare se non ci fosse stata la forzatura di Renzi con il voto di fiducia. Quello che dobbiamo vedere ora è se il Parlamento riuscirà a recuperare quella centralità che ha perso negli anni”.
Qui la puntata integrale di CartaBianca con ospite Corrado Augias.