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Photo by 5chw4r7z / CC BY-SA

“Il troppo è troppo”: sono proiettili le parole degli studenti contro le armi


A Washington DC, New York, Boston e in 700 città degli Stati Uniti, si sono riuniti e hanno fatto sentire la loro voce. Così tanti forse non si aspettavano di essere neanche loro. O forse no. Forse proprio perché percepivano di essere così tanti ad aver incontrato nella loro vita le conseguenze di leggi per il controllo delle armi poco restrittive hanno deciso che era il momento giusto per farsi sentire. Le vittime delle cosiddette “sparatorie di massa” – più di 800 morti dal 1982 a oggi – hanno raggiunto un numero che non si può ignorare, anche se il Presidente, Donald Trump, ha scelto di trascorrere il week-end a Mar a Lago, in Florida, invece che alla Casa Bianca a prestare attenzione.

Non è stato solo il numero a essere diverso lo scorso 24 marzo. Per la prima volta a portare per le strade una protesta di simili dimensioni non c’erano solo membri di minoranze etniche, delle comunità latine o afroamericane. A protestare c’era la “sub-urban America”, i bianchi delle piccole città, dei quartieri periferici di quelle più grandi; c’erano potenziali elettori di ogni schieramento, a mostrare che quella del controllo delle armi è una questione trasversale, non solo politica ma, oramai per troppi, personale.

Sono qui perché sono stata personalmente toccata dalla mancanza di controllo sulle armi da fuoco”, racconta Mya Middleton, di Chicago, al suo primo anno di liceo, solo una delle centinaia di voci che si sono alzate nel corso della giornata.

C’è chi ha avuto un’arma da fuoco puntata in volto, come Mya, appunto. Chi è sopravvissuto a un attacco nella propria scuola, come Emma Gonzalez, la leader del movimento nato dopo l’attacco di Parkland e che ha portato a questa marcia. C’è chi ha visto morire per strada il proprio fratello, come Edna Chavez, di Los Angeles che racconta: “Mio fratello era al liceo quando è morto. Era un giorno come tanti altri, il sole tramontava su South Central. Senti i botti, pensi ai fuochi d’artificio. Non erano botti. E vedi la melanina sulla pelle di tuo fratello diventare grigia. Si chiamava Ricardo”.

Non ho perso solo mio fratello quel giorno, ho perso anche mia madre, mia sorella e me stessa per colpa del trauma e dell’ansia. Se quel proiettile non mi ha ucciso, lo faranno il trauma e l’ansia. Mi porto dietro questo trauma ovunque io vada, lo porto a scuola, in classe, sulla via di casa (…) e non sono l’unica a vivere quest’esperienza”, prosegue, gridando quanto sia normale perdere qualcuno che si ama in South LA. “Normale al punto che ho imparato ad accucciarmi per evitare i proiettili prima ancora di imparare a leggere”.

Quello di Edna Chavez è uno di quei discorsi del 24 marzo che resteranno nella storia di questo movimento. Un altro è, appunto, quella di Emma Gonzalez che comincia ricordando le 17 vittime di Parkland e quello che non potranno più fare e resta in silenzio fino a raggiungere una presenza sul palco di sei minuti e venti secondi.

Sei minuti e venti secondi con un AR15 e la mia amica Carmen non si lamenterà più con me delle sue lezioni di piano, Aaron Feiss non chiamerà più Ciara ‘miss sunshine’, Alex Schachter non entrerà più a scuola con suo fratello Ryan (…)”.

Anche le parole di Naomi Walder, anni nove, pesano: “Sono qui oggi per rendere omaggio e rappresentare tutte le ragazze Afro Americane le cui storie non raggiungono le prime pagine dei giornali nazionali e non aprono i telegiornali della sera. Rappresento le donne Afro-Americane vittime di armi da fuoco che invece di essere bellissime e vivaci ragazze piene di potenziale sono soltanto semplici numeri”.

C’è chi ha detto che sono troppo giovane per aver pensato queste cose da sola. Che sono uno strumento di qualche adulto senza nome. Non è vero. I miei amici ed io possiamo avere ancora solo undici anni ed essere ancora solo alle scuole elementari, ma sappiamo che la vita non ha lo stesso valore per tutti, e sappiamo cosa è giusto e cos’è sbagliato”, prosegue.

Ci sono state poi le parole della piccola nipote di Martin Luther King, a 50 anni dalla sua morte. Ma ce ne sono state altre, tante altre che raccontano come tutti negli Stati Uniti possono, da un giorno all’altro, incontrare le conseguenze delle politiche dettate dalle lobby delle armi. Dentro e al di fuori delle mura scolastiche, come ricorda Matthew Soto, 19 anni, fratello di una delle maestre rimaste uccise nell’attacco alla scuola elementare di Sandy Hook in Connecticut: “Troppe volte colpi di arma da fuoco sono esplosi nei corridoi di scuole in tutto il paese, in troppe scuole, troppe chiese, troppi cinema, troppi quartieri, troppe case. Il troppo è troppo”.

Enough is enough.