La campagna presidenziale Usa del 2020 è cominciata. Lo ha reso definitivamente chiaro a chi non se ne fosse accorto la serata di ieri, quella del discorso di Donald Trump sullo Stato dell’Unione. Non solo per quello che ha detto (e non ha detto) il Potus in carica (qui il testo del discorso e il video), ma soprattutto per le risposte verbali o non da parte dei membri del Partito Democratico.
Sembra un partito diverso da quello diviso e polarizzato che si è presentato alle scorse elezioni – quelle che hanno visto la vittoria del tycoon su Hillary Clinton. Anche se forse è presto per dirlo. Un partito unito dalle diversità che rappresenta, etniche e di genere, e unito nelle battaglie da portare avanti, come mostrano i vestiti bianchi indossati ieri da tante tra le rappresentanti democratiche, in tributo alle suffraggette e a monito del lavoro ancora da fare verso la parità di genere. Sono risposte che mostrano coesione di intenti e di valori.
Vero, non c’è un candidato. Neanche una vera e propria rosa di candidati, anche se alcuni nomi hanno cominciato a girare sin dall’inizio di questo 2019, da Elizabeth Warren a Kamala Harris, da Beto O’Rourke fino a Bernie Sanders (che ha sempre corso come indipendente e non è membro del partito democratico). L’assenza di un leader unico è un problema, ma in questo momento sembra essere compensata proprio dal grande lavoro di costruzione di un’identità condivisa e di riconquista della fiducia dei cittadini. Con l’obiettivo quasi di riassicurarli che c’è una parte della classe politica al lavoro per difendere i loro diritti – chiunque essi siano e da dovunque provengano negli Stati Uniti, nel mondo o nella scala sociale. Che sia questo il primo passo verso la vittoria nel 2020?
Non che i leader, nel partito, manchino. Un nome su tutti: Nancy Pelosi, Presidente della Camera dei rappresentanti, che ha tenuto testa a Trump durante lo shutdown dei giorni scorsi, il più lungo della storia degli States. Pelosi, tuttavia, finora non ha espresso alcuna intenzione a candidarsi quale futuro presidente. E non ne ha intenzione neanche Stacey Abrams, colei che ieri ha pronunciato la tradizionale “risposta ufficiale” che un membro del partito di opposizione rilascia subito dopo il discorso sullo Stato dell’Unione.
Non è un compito facile, ma Stacey Abrams lo ha portato a termine egregiamente, contribuendo anche lei alla costruzione di questa identità condivisa e toccando molti di quelli che saranno i punti chiave delle campagne presidenziali: immigrazione, lavoro, assistenza sanitaria, diritti delle donne, diritto al voto.
Abrams ha perso di appena 60mila voti il seggio di governatore della Georgia alle scorse elezioni di midterm contro il repubblicano Brian Kemp. Nel suo concedere la vittoria, ha espresso forti sospetti di voter suppression (una disincentivazione di parte dell’elettorato a presentarsi alle urne attraverso intimidazioni e attacchi da parte dei sostenitori della parte opposta) contro molti cittadini di colore.
Questa è la prossima battaglia per la nostra democrazia.
La battaglia contro queste pratiche è una di quelle portate avanti dai democratici. Inoltre, l’ampliamento del diritto di voto è oggetto di una delle prime proposte di legge presentate dai democratici nel 2019 che prevede l’introduzione della registrazione automatica e e di rendere festivo il giorno delle elezioni in modo che tutti possano andare a votare. Nel suo discorso Abrams ha confermato questo impegno: “Parliamoci chiaro: l’impedimento al voto è un problema reale (….) Questa è la prossima battaglia per la nostra democrazia, per una democrazia in cui tutti i cittadini eligibili hanno modo di esprimere il proprio parere sulla visione che vogliamo per il nostro paese”.
Sin dalle sue prime parole e spesso in contrapposizione diretta al discorso di Trump, Abrams mostra la distanza del Presidente dalla realtà dei cittadini statunitensi, paragonandola implicitamente alla vicinanza con i problemi dell’elettorato che il partito democratico vorrebbe mostrare, soprattutto grazie al contributo delle tante donne appene entrate al Congresso. A metterli uno accanto all’altro anche i discorsi non potrebbero essere più distanti.
Da un lato Trump, multimiliardario e difensore da sempre dei super ricchi, si autoinclude impropriamente nella working class e inveisce contro “i benestanti politici che vogliono delle frontiere aperte” e contro “alieni criminali illegali”. Dall’altro Stacey Abrams, proveniente per davvero da una famiglia appartenente alla working class, sottolinea che “dall’agricoltura all’assistenza sanitaria, all’imprenditorialità, l’America è resa più forte dalla presenza di immigrati”.
Da un lato Trump chiede di governare insieme “non come due partiti, ma come una nazione”, ma poi pretende che le indagini contro di lui non siano portate avanti e minaccia di ripetere lo shutdown se non sarà approvata la spesa per la costruzione del muro al confine con il Messico. Dall’altro Stacey Abrams ricorda come lo shutdown voluto da Trump esclusivamente per forzare la mano al Congresso abbia messo per 35 giorni migliaia di funzionari federali in grandi difficoltà.
“Solo poche settimane fa mi sono unita ai volontari per distribuire i pasti ai funzionari federali in congedo forzato. Aspettavano in fila per ottenere un pacco di cibo e un filo di speranza, perché da settimane non ricevevano lo stipendio”. “Usare i mezzi di sussistenza dei nostri funzionari come una pedina per i giochi politici è un disonore. Lo shutdown è stata una manovra, progettata dal Presidente degli Stati Uniti, una manovra contro ogni principio di equità…”, ha tuonato con fermezza.
È immorale permettere ai politici di danneggiare le donne e le famiglie per far avanzare un’agenda politica.
Da un lato Trump attacca le leggi sull’aborto e ne propone una per renderlo sempre più difficile, come ulteriore mossa a favore dei movimenti anti-abortisti della sua amministrazione. Dall’altro Stacey Abrams, con estrema semplicità, definisce “immorale permettere ai politici di danneggiare le donne e le famiglie per far avanzare un’agenda politica”.
Davvero non potrebbero essere più distanti. E del resto la scelta di far pronunciare il discorso ad Abrams non è casuale. Non solo dimostra che lei giocherà un ruolo prominente all’interno del partito (si parla intanto di una candidatura, non alla presidenza ma a un seggio in Senato), ma è un chiaro segno che il partito si sta rivolgendo alle minoranze e alla classe lavoratrice, le realtà più minacciate dalle politiche trumpiane.
Il discorso di Abrams sottolinea anche la distanza tra l’agenda democratica e quella del Presidente. Nella prima ci sono obiettivi quali contrastare le sparatorie di massa, ridurre o eliminare il debito studentesco, agire per fermare il cambiamento climatico (grande assente del discorso del Potus), allargare a tutti il diritto alla salute.
“In questa grande nazione, gli americani si negano le pillole per (tenere sotto controllo, ndr) la pressione, costretti a scegliere tra comprare medicine o pagare l’affitto. I tassi di mortalità materna mostrano che le madri, in particolare le madri di colore, rischiano la vita nel partorire. E in 14 stati, incluso il mio stato di origine, dove invece la maggioranza delle persone sarebbe a favore, i nostri leader si rifiutano di espandere Medicaid che potrebbe salvare ospedali rurali, economie familiari e vite umane.”
C’è una similitudine, tuttavia, tra i due discorsi: come Trump anche Stacey Abrams ha fatto appello per tutto il discorso, in maniera più o meno esplicita (“In questo tempo di divisione e di crisi, dobbiamo unirci e difenderci e con gli uni gli altri”), a un’unità di intenti e alla cooperazione. Solo che Trump vorrebbe unire l’America a suon di muri. Ma i muri, per definizione, dividono non uniscono.