“Quando i bambini imparano insieme si crea un senso di appartenenza”, ne è convinta Nafisa Baboo, consulente per un’istruzione inclusiva dell’associazione Light of the World. E lei lo sa bene perché lei stessa è stata una bambina con una disabilità, visiva nel suo caso.
Lo è stato anche suo padre che, avendo anch’egli un difetto alla vista, è stato spedito in una “scuola speciale” per non vedenti lontana da casa, segregato dalla sua famiglia e dagli altri bambini della sua città.“Quell’esperienza di esclusione e isolamento dalla famiglia, attraverso la quale ha scoperto il modo in cui i bambini non vedenti imparavano e quale ruolo sentivano di avere nella società, gli ha fatto scegliere per me e mio fratello una strada diversa. Voleva che frequentassimo una scuola normale, con altri bambini”.
Che tutti i bambini frequentino la stessa classe, insieme, partecipando tutti costruttivamente al processo di apprendimento è il principio base della scuola inclusiva. Un principio che è stato enunciato per la prima volta esattamente 25 anni fa, alla prima World Conference on Special Needs Education, co-organizzata dall’Unesco e dal Ministero dell’educazione e della scienza spagnolo a Salamanca, in Spagna.
A quell’evento, nel 1994, parteciparono i rappresentanti di 92 governi e 11 organizzazioni internazionale. Novantadue paesi concordarono sul fatto che: “Tutti i bambini dovrebbero imparare insieme, ovunque possibile, a prescindere da qualsiasi difficoltà o differenze che possano avere. Le scuole inclusive devono riconoscere e rispondere ai diversi bisogni dei loro studenti”.
Tutti i bambini dovrebbero imparare insieme, ovunque possibile, a prescindere da qualsiasi difficoltà o differenze che possano avere.
Non era la prima volta che si affermava il diritto universale all’educazione: è parte enunciato nel 1948 nella Dichiarazione universale dei diritti umani, nel 1960 nella Convenzione Unesco contro le discriminazioni nell’istruzione, nel 1989 in nella Convenzione Onu per i diritti dell’infanzia, nel 1993 dalle Regole Standard Onu sulla disabilità. Oggi è ribadito anche nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, nel obiettivo n.4: “Garantire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.
“Un’istruzione inclusiva”, spiega Nafisa, “è uno strumento per garantire una formazione di qualità a tutti i bambini. Ci si riesce innanzitutto individuando le barriere che ostacolano l’apprendimento ed è necessario fare in modo che i bambini con e senza disabilità possano imparare insieme, nella stessa classe, con metodi di insegnamento innovativi che possano essere adattati alle diverse necessità dei bambini”.
Un ambiente di apprendimento inclusivo può e deve deve essere creato in ogni occasione: in classe, in palestra, in giardino, in biblioteca, nelle aule di teatro e di musica se ci sono. Partecipazione, spirito di comunità e senso di appartenenza devono essere gli obiettivi perseguiti affinché tutti gli studenti progrediscano verso obiettivi sociali, emotivi e accademici personali. Quello che assolutamente la scuola inclusiva non è è una scuola in cui studenti con disabilità o altri “bisogni speciali” imparano isolati e separati dai propri pari.
La gente pensa che le persone con disabilità, compresi i bambini, abbiano solo bisogno di aiuto e non abbiano valore per la società.
Barriere a una scuola inclusiva
Nonostante dunque sulla carta la scuola inclusiva è un diritto per tutti e un dovere per gli stati – in Italia è del 1992 la legge (Legge n. 104 05/02/1992, Art. 12) che ha messo fine alla segregazione scolastica – non è un obiettivo semplice da realizzare. Per diversi motivi.
Alcuni sono legati alla mentalità diffusa tra le persone e ai pregiudizi che esistono ancora oggi verso le persone con disabilità: “Affrontiamo una discriminazione profondamente radicata nella società perché la gente pensa che le persone con disabilità, compresi i bambini, abbiano solo bisogno di aiuto e non abbiano valore per la società. E questo è il motivo per cui sono escluse”, spiega Nafisa.
È vero. Può non essere semplice relazionarsi con un bambino con una disabilità nel modo giusto né per gli insegnanti né per gli altri bambini. Ai primi viene chiesto un lavoro al quale spesso non sono preparati né formati (né retribuiti): un lavoro di relazione, di armonizzazione, di coordinazione dell’apprendimento e di adattamento degli strumenti. I secondi, soprattutto oggi, non sono sempre educati a relazionarsi con le diversità, tanto meno a riconoscerne il valore: i bambini con disabilità sono spesso vittime di bullismo sia emotivo sia fisica.
Tuttavia, all’interno del sistema scolastico dovrebbe essere prevista la formazione per gli insegnanti e, allo stesso tempo, società e famiglie dovrebbero promuovere una cultura della diversità come ricchezza, dell’accoglienza e della solidarietà. Purtroppo oggi si sta assistendo alla diffusione di valori e atteggiamenti molto distanti da questi.
Altre barriere alla costruzione di un ambiente di apprendimento inclusivo possono essere di tipo fisico (barriere di accesso all’ambiente scolastico), tecnologico (mancanza dispositivi per facilitare l’apprendimento e la comunicazione, che siano tablet o anche solo tastiere braille), metodologico (curricula inappropriati, mancanza di comunicazione e coordinazione tra insegnanti, insegnanti di sostegno, presidi e figure che si occupano delle riforme scolastiche) e finanziarie (mancanza di fondi per le strutture scolastiche, per la formazione professionale, per gli insegnanti di sostegno ecc.).
In Italia
Diversamente che in altri paesi del mondo in Italia grazie alle legge sull’integrazione scolastica approvata nel 1992, è previsto che gli studenti con una disabilità seguano le lezioni insieme ai loro pari in classi regolari e tradizionali. Questo provvedimento è stato il culmine di un percorso di smantellamento delle scuole speciali separate cominciato all’inizio degli anni ‘70.
Inclusione è un concetto va oltre l’inserimento delle minoranze emarginate in contesti tradizionali.
Più recentemente, nel 2013, ricorda Simona D’Alessio, ricercatrice proprio nell’ambito dell’educazione inclusiva, il Ministero dell’Istruzione ha creato una macro categoria di “studenti con special educational needs” (studenti Sen) che comprende studenti con gravi disabilità fisiche o intellettive diagnosticate da un medico del servizio sanitario pubblico (che sono gli studenti che rientrano nella legge del 1992) studenti con difficoltà di apprendimento come dislessia e discalculia anch’esse certificate da una diagnosi, e studenti con svantaggi culturali, linguistici e socio economici. Inoltre, nel 2017 è stato approvata la cosiddetta riforma “buona scuola” all’interno della quale (con il successivo decreto 66) vi sono anche indicazioni che dovrebbero definire e guidare l’implementazione di una scuola inclusiva.
In teoria dunque, per lo meno sulla carta, l’Italia è un paese “modello” in termini di educazione inclusiva. Tuttavia, come sottolinea sempre D’Alessio, sebbene la definizione degli studenti come studenti Sen sia un passo necessario perché sia garantito loro il supporto necessario, questa stessa categorizzazione rinforza in un certo modo la stigmatizzazione. Sottolinea la differenza e le necessità di questi studenti, definendoli manchevoli in qualche modo. Il nodo rimane la loro di inadeguatezza e non quella del sistema educativo, che per lo più non viene cambiato e sfidato a cambiare.
“Inclusione“, prosegue D’Alessio, “è un concetto va oltre l’inserimento delle minoranze emarginate in contesti tradizionali. Incapsula il processo di rendere i sistemi educativi in grado di rispondere all’intera popolazione studentesca. Le politiche inclusive dovrebbero riguardare ciò che deve essere cambiato in atteggiamenti, pedagogia, curriculum, valutazione e organizzazione scolastica”.
Qui il video integrale con la storia di Nafisa, pubblicato su Internazionale.
Per chi volesse approfondire il tema dell’educazione inclusiva ecco alcune risorse utili:
European Agency for Special Needs and Inclusive Education
Unesco – Inclusion in Education
Unicef – Disabilities – Education