Potrebbe essere approvato oggi l’emendamento sul revenge porn. Per lo meno secondo le dichiarazioni del Vicepremier Luigi Di Maio che, in seguito alle polemiche della settimana scorsa, ha dovuto annunciare da New York un cambio di linea del Movimento 5 Stelle. Giovedì scorso, il 28 marzo, infatti, la Camera dei Deputati aveva respinto con 232 voti contrari e 218 favorevoli un emendamento al disegno di legge “Codice rosso” che avrebbe introdotto il reato di revenge porn. L’emendamento, che aveva come prima firmataria la deputata Laura Boldrini (LeU), è stato bocciato per 14 voti. A non votarlo i rappresentanti della Lega e del Movimento 5 Stelle.
“Il revenge porn in sé si riferisce alla vendetta da parte di un ex con la pubblicazione (online, ndr) alla fine della relazione di foto e video della fidanzata. Ma in realtà la condivisione può avvenire anche all’inizio della relazione o durante, quindi si riferisce più in generale alla condivisione non consensuale di materiale intimo”, spiega Silvia Semenzin, dell’associazione Insieme in Rete che, con la rivista Bossy e I Sentinelli di Milano, ha lanciato in autunno una petizione (#intimitàviolata, che ha raccolto più di centomila firme) per introdurre il reato di revenge porn nella legislazione italiana.
Gli esponenti del M5S avrebbero giustificato la bocciatura dell’emendamento sostenendo la necessità di una legge più completa. Legge che, possibilmente, dovrebbe portare la loro firma e non quella di un partito di opposizione. Contemporaneamente al voto del 28 marzo alla Camera, infatti, il Movimento cinque stelle ha presentato al Senato la sua proposta di legge sullo stesso tema, che prevede pene da sei mesi a tre anni per chi pubblica foto private senza il consenso dell’interessato. La pena sale fino a quattro anni nel caso di ex partner e fino a dieci anni se la vittima si uccide.
Questa non è un’eventualità poi tanto rara. Secondo un rapporto di Amnesty International sulle molestie online, tra cui rientra il revenge porn, l’impatto psicologico può essere devastante. Oltre la metà delle donne coinvolte nel sondaggio ha dichiarato di aver provato una diminuzione dell’autostima e della fiducia in sé stesse e ha iniziato a soffrire di attacchi di panico. Alcune ragazze, poi, possono spingersi fino al suicidio. Il caso più noto in Italia è quello di Tiziana Cantone, una ragazza napoletana che nel 2016 si è tolta la vita dopo che alcuni video sessuali privati, diffusi senza il suo permesso, erano stati condivisi online.
Potenzialmente siamo tutte oggetto di questo tipo di chat, per quello che ne so potrei esserci anche io,
Ma come funziona questa pratica? “La modalità di condivisione è molto simile sia quando parliamo di gruppi piccoli, quindi di chat tra amici che possono essere su WhatsApp, sia quando parliamo invece di gruppi ben più grossi, per esempio su canali come Telegram, in cui arriviamo fino anche a gruppi di 24.000 persone”, spiega Silvia Semenzin.
Silvia ha cominciato a impegnarsi in questa battaglia quando, per caso, ha scoperto (su Telegram) una cartella dal nome “Donne tutte puttane” in cui ha trovato video e fotografie inviate da ex fidanzati che riguardava anche molte persone che conosceva. “Le persone commentavano foto di ogni genere di ragazze ignare dell’abuso che stavano subendo. Potenzialmente siamo tutte oggetto di questo tipo di chat, per quello che ne so potrei esserci anche io”, racconta.
“Dal materiale che abbiamo trovato abbiamo visto che ci sono ragazze di tutte le età, da Sud a Nord, e di ogni estrazione sociale. Ci sono casi in cui anche gli uomini sono vittime di revenge porn, soprattutto ragazzi omosessuali, ma nella maggior parte dei casi sono le donne a essere vittima di questo tipo di violenza”. Ben una donna su cinque ne sarebbe vittima, secondo il rapporto di Amnesty.
Dopo la scoperta, Silvia ha partecipato alla creazione dell’associazione Insieme in Rete, nata proprio per difendere la causa degli abusi sul web. I gruppi su Telegram scoperti dall’associazione sono moltissimi. Telegram infatti, è un’applicazione largamente utilizzata per lo scambio di questo tipo di materiale anche perché permette di mantenere un certo anonimato e di includere numerosissimi utenti all’interno dei gruppi a cui si accede tramite invito.
Se io decido di scattarmi una foto perché sono in una relazione di fiducia è ben diverso dal dare il mio consenso a pubblicare quella foto su Internet.
Secondo Semenzin, le categorie del revenge porn sono quattro. “La prima categoria è quella un po’ più generica, dove vengono condivisi video e fotografie delle proprie ex fidanzate accompagnate dai numeri di telefono, a volte chiedendo anche al gruppo di scrivere alla ragazza in questione. Si trovano foto e video di moltissime minorenni, di persone che sono già morte, come Tiziana Cantone, e il tutto viene sempre accompagnato da questo linguaggio denigrante nei confronti delle donne. Poi ci sono altri tipi di canali, più specifici, tra cui i canali spionaggio dedicati a riprese fatte in modalità spy, quindi videocamere e microfoni occulti. Poi ci sono i canali in cui passano foto prese dai social e infine quelli in cui viene presa di mira una singola ragazza, dove vengono inviate tutte le sue foto con il numero di telefono”.
“Nell’80 per cento dei casi del materiale reperibile nelle chat si tratta di autoscatti perciò il consenso è un aspetto fondamentale da tenere in considerazione. Se io decido di scattarmi una foto perché sono in una relazione di fiducia è ben diverso dal dare il mio consenso a pubblicare quella foto su Internet e a farla vedere a tutto il resto del mondo. Bisogna poi considerare che la maggior parte delle vittime è adolescente e su di loro lo stigma della colpa ricade in maniera impietosa”, continua Silvia. Per questo è necessario non demonizzare il sexting, ovverosia lo scambio di messaggi e foto espliciti in chat tra individui consenzienti, che è ampiamente diffuso soprattutto tra i giovani.
Da una recente ricerca del portale per studenti Skuola.net è emerso che dei 6.500 ragazzi tra i 13 e i 18 anni intervistati circa uno su quattro ha scattato una foto o girato un filmato sexy. Il 12 per cento di loro ha poi dichiarato di essere stato minacciato di veder pubblicate le immagini, mentre il 15 per cento è cosciente del fatto che le sue foto sono già state condivise. Il dato più sorprendente è che ben il 50 per cento di loro giustifica la condivisione, affermando che si è trattato semplicemente di uno scherzo di cattivo gusto, e solo il 7 per cento è consapevole di essere stato vittima di revenge porn.
Tuttavia, per la vergogna, circa uno su tre ha evitato di dirlo in giro ma solo pochi chiedono aiuto alla famiglia o agli amici. “Spesso si dice che basterebbe non fotografarsi o essere più pudiche nella diffusione, ma sarebbe come vietare il sesso per evitare le malattie veneree”, sostiene Silvia.
Gli uomini che condividono questo tipo di materiale si sentono protetti nel farlo perché sono coscienti del vuoto legislativo.
“Internet può essere un luogo minaccioso e pericoloso per le donne. Ma siamo di fronte a qualcosa che non finisce quando cessi di essere online. Puoi ricevere minacce di morte appena apri una app, o vivere nel terrore che foto erotiche o intime circolino in rete senza il tuo consenso. Il tutto con una velocità incredibile”, ha dichiarato in una nota ufficiale Azmina Dhrodia, ricercatrice di Amnesty International. E il fatto che in Italia sia quasi nulla la tutela delle ragazze che decidono legittimamente di inviare materiale intimo al proprio ragazzo o a chiunque altro, senza dare il consenso di diffusione e trovandole poi online, non è più tollerabile.
“Gli uomini che condividono questo tipo di materiale si sentono protetti nel farlo perché sono coscienti del vuoto legislativo. Ci sono delle leggi a cui le ragazze possono fare riferimento oggi che hanno a che vedere con la protezione dei dati, con la diffamazione o la condivisione di riprese fraudolente, ma sono insufficienti perché non prendono in considerazione il fatto che spesso e volentieri si tratta di autoscatti e nel momento in cui si tratta di autoscatti per la legge italiana stai dando anche l’autorizzazione alla condivisione”, conclude Silvia.
“In questo momento quello che può fare una ragazza è rivolgersi alla polizia postale, fare denuncia e chiedere che il materiale venga rimosso da internet. Il problema è che una volta che il materiale è online è già virale. Puntiamo molto sulla prevenzione e sull’educazione digitale ma soprattutto sul riconoscimento del consenso: la colpa deve essere di chi condivide, non di chi decide di scattarsi una foto”.
Guarda Silvia Semenzin che racconta a Freeda cos’è il revenge porn e perchè deve essere reso un reato.