Oggi si chiama “pornografia non consensuale”, ma è più conosciuta con il suo vecchio nome “revenge porn”. Il revenge porn è l’atto di pubblicare online e condividere foto di nudi o di atti sessuali senza il consenso della persona ritratta nell’immagine, spesso da parte di ex-partner. In Italia è diventato ufficialmente un crimine la scorsa estate, ma in questi mesi di lockdown da noi, in Europa e in molti altri Paesi del mondo si è osservata un’impennata di condivisioni di queste immagini e un vertiginoso aumento nella creazione e nelle iscrizioni a gruppi e chat in cui ci si scambiano queste immagini, si incita allo stupro virtuale di gruppo e a violenze digitali di ogni genere.
Solo nel Regno Unito si sono registrate centinaia di nuove vitime durante i mesi di reclusione forzata, come racconta Sophie Mortimer, manager della Revenge Porn Helpline britannica, in un video della Thomson Reuters Foundation. “Abbiamo osservato questo picco da quando è cominciato il lockdown e non credo si possa negare che ci sia una connessione. Nel primo anno abbiamo osservato circa 60-70 casi o giù di lì. Il mese scorso, ed è un periodo eccezionale per noi, erano quasi 250 (…)”.
Secondo Mortimer, per molte persone l’obbligo di restare a casa ha portato a situazioni di pericolo: nuovi e sempre più frequenti episodi di violenza domestica o di vendetta digitale. “Penso che ogni paese stia vedendo cose molto simili a noi certamente in Europa e Nord America. A volte veniamo contattati da persone in India o in Pakistan e Bangladesh. È un problema globale”, spiega ancora.
Può capitare a tutte e capita a moltissime
“Pensavo fosse qualcosa che capita solo alle persone famose”, racconta Emma Holten, sopravvissuta a una vicenda di Revenge Porn. “Non ero mai venuta a conoscenza di un caso capitato a una persona normale”. Eppure sono moltissime le persone normali a cui accade. Una donna ogni 25 negli Stati Uniti, sempre secondo i dati divulgati da Thomson Reuters e una ogni 3 nel regno Unito e in Australia. In Europa, circa 9 milioni di ragazze hanno subito una qualche forma di violenza online entro i 15 anni.
Nel 2017 un’indagine condotta da Amnesty International ha coinvolto 4000 donne in otto paesi diversi: Danimarca, Italia, Nuova Zelanda, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Stati Uniti d’America. Secondo l’indagine ,“911 donne hanno risposto di aver subito molestie o minacce online, 688 delle quali sui social media. Per quanto riguarda l’Italia, su 501 donne intervistate, 81 hanno subito molestie o minacce online, 62 delle quali sui social media”.
Pensavo fosse qualcosa che capita solo alle persone famose.
In Italia, come detto all’inizio, il revenge porn è reato dall’estate scorsa, grazie alla legge n69 del 19 luglio 2019 che punisce la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn)” con la reclusione da uno a sei anni e una multa da 5000 a 15 mila euro. Ed è perseguibile non solo il primo che condivide ma chiunque le diffonda “senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”.
“La pena è aumenta se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza”, prosegue il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Ttuttavia, solo qualche settimana fa l’organizazione noprofit PermessoNegato.it ha rivelato che proprio nel nostro Paese solo su Telegram ci sarebbero ben 29 gruppi dedicati al revenge porn frequentati da oltre due milioni di utenti. In questi gruppi gli utenti si scambiano immagini pornografiche e pedopornografiche chiedendo e ottenendo commenti. Infatti, come mostra una recente inchiesta di Wired Italia nella quale il giornalista Simone Fontana è entrato e ha esplorato uno di questi gruppi, questa legge non sembra aver fermato i persecutori.
In queste chat l’incitazione alla violenza è altissima ed è una violenza reale che spesso sfocia in vere e proprie persecuzioni della vittime. Secondo un’altra indagine, svolta dalla Cyber Civil Right Initiative che ha riguardato 1601 donne, di cui 361 sono risultate vittime di revenge porn, ben il 59 per cento ha visto condiviso, insieme alle immagini, il proprio nome completo, il 26 per cento il proprio indirizzo e-mail, il 20 il numero di telefono cellulare, il 16 per cento l’indirizzo di residenza e il 12 quello del luogo di lavoro.
Drammatico l’impatto sulle vittime
L’impatto sulla vita delle vittime è altissimo e devastante, come mostrano i dati della ricerca della
Cyber Civil Right Initiative: il 93 per cento delle vittime ha riportato un forte stress emotivo e psicologico, l’82 per cento ha sofferto danni in termini sociali e occupazionali, il 51 per cento ha avuto pensieri suicidi, il 49 ha riportato di aver subito molestie online da utenti che avevano avuto accesso alle immagini, il 42 per cento si è rivolto a uno psicologo, il 54 per cento ha avuto difficoltà a concentrarsi sul lavoro o sullo studio. Molte vittime hanno poi visto compromesse le loro relazioni personali: nel 34 per cento dei casi relazioni familiari, nel 38 quelle di amicizia e il 13 per cento ha perso il/la partner in seguito alla diffusione delle immagini.
Ho sentito che anche lo Stato era d’accordo con quello che tutti dicevano su di me online, che ero disgustosa e che meritavo tutto ciò che mi stava accadendo.
Fin troppo spesso poi le vittime si sentono sole, giudicate, considerate loro stesse responsabili del torto subito. Sono emblematiche in questo senso le parole di Emma Holten. “Io mi sono rivolta alla polizia. Hanno guardato le foto e hanno detto: ‘non sono poi così male’. È stata una seconda delusione, forte quasi quanto la prima e ho sentito che anche lo Stato era d’accordo con quello che tutti dicevano su di me online, che ero disgustosa e che meritavo tutto ciò che mi stava accadendo”.
Perché tanti in più durante il lock down
“Abbiamo visto adoperare molte nuove tecnologie, e quindi un uso più comune di Zoom, Microsoft Teams, Skype e altre di ogni tipo. Credo che questo abbia dato ai perpetratori di tali crimini nuovi strumenti per portare avanti gli stessi abusi del passato”, spiega Clare McGlynn, docente di giursiprudenza alla Durham University. Secondo McGlynn, l’aumento nei casi di revenge porn durante il lock down sarebbe attribuibile almeno in parte all’aumento del tempo trascorso su Internet e sui social media.
“Penso che ciò che abbiamo osservato durante il lockdown sia stato un aumento dei casi di abuso domestico. E molti casi di abuso domestico comportano l’uso della tecnologia e la minaccia di condividere immagini di contenuto sessuale. Ciò che il lockdown ci ha mostrato è che la tecnologia ancora non viene sviluppata avendo in mente sin dall’inizio la sicurezza e la prevensione di molestie e abusi”.
Tra gli altri problemi che sono stati riscontrati nel lockdown vi è stata anche una certa lentezza da parte delle piattaforme nell’eliminare i contenuti e i profili segnalati da autorità, organizzazioni o vittime stesse. È capitato per esempio, riporta Insider, con Instagram che in risposta a segnalazioni comunicava che ci sarebbe stato bisogno di un tempo più lungo del solito per revisionare il contenuto segnalato a causa della riduzione dei moderatori dovuta alla pandemia di Covid-19 e che avrebbe dato precedenza alla revisione di contenuti a priorità alta. Purtroppo Instagram non consente di segnalare contenuti adoperando parole chiave come “revenge porn”, ma solo come “nudo”, riducendo enormemente la priorità di intervento dei moderatori su queste immagini.
“Il peggiore è stato un video di stupro di gruppo e quell’immagine rimarrà per sempre nel mio cervello. È stato su Instagram per due giorni e milioni di persone lo hanno visto“, ha raccontato Clemont McLaren che acon alcuni amici ha lanciato una campagna contro il revenge porn sulla piattaforma stessa.