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Photo by matteo0702 / CC BY

Piketty: Non esistono disuguaglianze naturali


L’economista francese più famoso al mondo torna a far parlare di sé con la sua ultima monumentale opera intitolata Capitale e Ideologia uscita in Francia a settembre per Seuil. Dopo il grande successo de Il capitale nel XX1 secolo, Thomas Piketty prosegue la sua indagine sulla disuguaglianza, avventurandosi nel terreno della storia economica e dell’analisi delle ideologie. Un lavoro che colpisce sin da subito per la sua accuratezza e per la mole impressionante di dati che sostengono l’impianto dell’intero libro

E lo fa con la dovizia di particolari che lo contraddistingue, attraverso dati, grafici e tabelle di cui si è servito anche il 30 gennaio scorso quando, su invito degli studenti, ha portato sulla cattedra del prestigioso anfiteatro Richelieu della Sorbona, le 1232 pagine di Ideologia e Capitale, ribadendo ancora una volta le sue conclusioni: “Tutte le grandi trasformazioni della disuguaglianza, dell’organizzazione della società e dell’economia nella storia, si sono appoggiate principalmente a delle trasformazioni politiche e ideologiche”.

Un’affermazione forse banale per alcuni, ma che rimette in discussione uno dei principali paradigmi critici del capitalismo, quello delle teorie marxiste, e che muove un deciso attacco verso le teorie conservatrici per le quali esiterebbero leggi naturali nell’organizzazione della società e dell’economia. Niente di più falso, secondo Piketty. Non sono i rapporti di produzione e le forze economiche a determinare meccanicamente la “sovrastruttura” ideologica, ma al contrario “esiste una reale autonomia della sfera delle idee, cioè la sfera ideologico politica. Analizzando la storia delle diverse forme di organizzazione delle società, si può vedere come allo stesso stadio di sviluppo di un’economia corrisponde una molteplicità di possibili regimi ideologici, politici e della disuguaglianza. Le alternative ci sono sempre stata e ce ne saranno sempre”.

Questo significa quindi che le disuguaglianze sono frutto di una precisa scelta politica delle élite che nel tempo hanno dovuto trovare narrazioni sempre differenti per poterle giustificare e renderle, in un certo qual modo, ovvie e naturali. “In ogni epoca e latitudine le élite hanno la tendenza a naturalizzare le disuguaglianze cercando di dar loro una base oggettiva, cercando di spiegare che e disparità esistenti sono anche nell’interesse dei più poveri e della società nel suo insieme”.

L’analisi di Piketty cerca di ripercorrere quindi le tappe principali di questo percorso andando a ricercare quelle che sono state le principali giustificazioni addotte dalle classi dominanti. E lo fa partendo dalle primissime forme di società organizzate oltrepassando anche i confini dell’occidente: dalle società di ordine (clero, nobiltà e terzo stato) alle società schiaviste o al periodo coloniale, dalle caste indiane alla divisione di classe durante la Belle Époque, passando per il New Deal di Roosevelt e per il modello cinese.

Se, in estrema sintesi, una volta le disuguaglianze erano giustificate attraverso un discorso basato su una sorta di “logica di complementarietà funzionale fra i gruppi sociali, ognuno apportava un contributo alla stabilità della società, in particolare quelli dominanti”, oggi quali sono le migliori parole per descrivere le disparità del mondo contemporaneo? Proprietà, imprenditorialità, merito.La disuguaglianza moderna sarebbe giusta perché deriva da un processo liberamente scelto in cui tutti hanno pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà e tutti beneficiano automaticamente di quanto accumulato dai più ricchi, considerati i più intraprendenti, meritevoli e produttivi”. Con la conseguente colpevolizzazione e stigmatizzazione dei “perdenti”, sempre più messi all’angolo, alle quali si aggiunge un’ulteriore discriminazione basata su ceto, etnia e religione “della cui violenza le favole meritocratiche non danno conto. Pensate ai senza fissa dimora, a chi viene da certi quartieri o di determinate origini. Così anche i migranti che annegano in mare”.

In ogni epoca e latitudine le élite hanno la tendenza a naturalizzare le disuguaglianze cercando di dar loro una base oggettiva.

Oggi, però, proprietà, imprenditorialità e merito non possono più giustificare quelle disuguaglianze che dagli anni ’80 hanno iniziato ad arare un netto solco fra le fasce di popolazioni più avvantaggiate, sempre di meno e sempre più ricche, e tutte le altre, sempre di più e sempre più povere. L’impianto scricchiola, le promesse egualitarie della democrazia non sono più state mantenute e tutte queste contraddizioni rischiano di far implodere il sistema verso “un ripiegamento identitario e nazionalista che potrebbe diventare la grande narrazione alternativa. Lo abbiamo visto in Europa nella prima metà del XX secolo e oggi si manifesta nuovamente in diverse parti del mondo”.

Tuttavia non tutto è perduto secondo Piketty, anzi. L’economista francese si dice fiducioso e convinto “che l’organizzazione capitalistica e della proprietà privata possano essere superate in vista di una società più giusta”. Come? “Socialismo partecipativo e socialfederalismo”. Il primo punta ad una migliore ripartizione dei poteri nelle imprese e soprattutto all’implementazione del principio della “proprietà temporanea” del capitale. Un’imposta sul patrimonio fortemente progressiva, una dotazione universale di capitale e la circolazione permanente dei beni”, prosegue Piketty, “un sistema di tassazione progressiva sul reddito e di regolamentazione collettiva delle emissioni di carbonio in grado di finanziare sicurezza sociale, reddito di base, transazione ecologica e l’istituzione di un diritto all’istruzione che sia davvero egualitario”. Mentre il socialfederalismo mira principalmente alla lotta alle disuguaglianze che vada oltre i confini nazionali: “dobbiamo sviluppare una nuova forma di globalizzazione, con trattati di cosviluppo imperniati su obiettivi quantificati di giustizia sociale, fiscale e climatica”.

Parole che possono suonare radicali, conclude Piketty, ma che hanno i piedi ben saldi nella storia “a metà del XX secolo si è osservata una forte riduzione delle disuguaglianze attuata grazie alla costruzione di uno stato sociale fondato una relativa uguaglianza educativa e una serie di innovazioni decisamente radicali, come la cogestione tedesca e dei paesi Nordici o la progressività fiscale di quelli anglosassoni”.